Rodrigo Duterte (foto LaPresse)

Rodrigo Duterte, l'altro Trump

Giulia Pompili

Guerra ai trafficanti di droga, guerra ai terroristi, ma soprattutto guerra all’America. Se qualcuno avesse previsto l’ascesa del presidente filippino, le analisi geopolitiche sull’Asia degli ultimi anni sarebbero state ben diverse.

“Non la prendo sul personale, è il suo modo di esprimersi”. Così il presidente americano Barack Obama tentò di minimizzare lo scontro diplomatico con il presidente filippino Rodrigo Duterte avvenuto all’inizio di settembre. I due avrebbero dovuto incontrarsi durante il vertice dell’Asean in Laos, e secondo il comunicato ufficiale della Casa Bianca, Obama avrebbe parlato con il presidente filippino anche della guerra al narcotraffico. Duterte aveva commentato durante una conferenza stampa il 5 di settembre, parlando sia in inglese sia in tagalog (la lingua più parlata nelle Filippine) evidentemente per farsi capire dal più ampio pubblico possibile: “Non sono un pupazzo dell’America. Sono il presidente di uno stato sovrano e non accetto critiche se non dai filippini. Te lo assicuro, figlio di puttana”. Qualche ora dopo, la Casa Bianca aveva fatto sapere di aver cancellato il bilaterale tra i due capi di stato. Messaggio ricevuto, perché in seguito è stato tutto un minimizzare: Duterte che fa sapere di non parlare personalmente della mamma di Obama, Obama che dice: ne ho visti tanti, di questi tipi con un linguaggio piuttosto colorito.

 

Tutto perdonato? Forse no. Perché la settimana successiva, durante il giuramento di alcuni ufficiali a Manila, il presidente Duterte se l’è presa con i soldati americani che sono attualmente in missione sull’isola di Mindanao, nel sud delle Filippine. “La situazione a Mindanao sta peggiorando”, ha detto Duterte, “se vedono un americano, lo uccidono. Non voglio parlare irrispettosamente nei confronti dell’America, ma se ne devono andare”. Anche questa volta, il giorno dopo, qualcuno ha tentato di raddrizzare il tiro: il portavoce delle forze armate filippine, Restituto Padilla, ha detto, come riportato dal New York Times, che Duterte ha semplicemente espresso la sua preoccupazione nei confronti dei soldati americani, che dal 2002 coadiuvano l’esercito filippino nella lotta all’estremismo islamico e agli indipendentisti delle fazioni comuniste. Poi il portavoce di Duterte, Ernesto Abella, ha detto che quello del presidente era soltanto un avvertimento, niente di serio, pur riconoscendo che la presenza di cittadini americani a Mindanao “aumenta i conflitti etnici”.

 

Duterte – settantuno anni, ex sindaco della città di Davao, tre figli di cui due in politica, e almeno un paio di soprannomi tra cui “The Punisher” e  “Duterte Harry” – è salito al potere tre mesi fa, e i media internazionali si stanno lentamente abituando al suo linguaggio colorito. Con effetti perfino comici, quando a decifrarlo è la stampa anglosassone (Damien Gayle, sul Guardian: “Obama si è unito a una lunga lista di persone la cui purezza delle madri è stata messa in discussione da Duterte, tra cui Papa Francesco, i vescovi filippini e un giornalista assassinato, così come i trafficanti di droga”). Le sue sparate, però, fanno meno sorridere i funzionari e le istituzioni internazionali. A fine agosto Duterte ha detto che le Filippine sarebbero state pronte a valutare l’uscita dalle Nazioni Unite (e magari a creare un’asse con Cina e paesi africani) dopo che due diverse agenzie dell’Onu avevano posto la questione del rispetto dei diritti umani nell’ambito della guerra ai narcotrafficanti iniziata da Duterte. Un paio di settimane fa, al Parlamento europeo che domandava di cessare le esecuzioni sommarie extragiudiziali contro presunti trafficanti di droga, Duterte ha risposto con il dito medio. Nessun portavoce del Parlamento europeo ha voluto commentare. Giovedì scorso, durante una visita in Vietnam, ha messo in stato di agitazione tutti gli ufficiali militari americani di stanza in Asia dicendo che le prossime esercitazioni militari tra Stati Uniti e Filippine saranno probabilmente le ultime – il segretario agli Esteri, Perfecto Yasay, il giorno dopo ha detto che nessuno aveva capito cosa davvero volesse intendere il presidente.

 



Laos, il presidente filippino Duterte a Vientiane, durante l'Asean summit (foto LaPresse)


 

Eppure c’è qualcosa di più in certe affermazioni forti, fatte sempre pubblicamente, spesso in lingua inglese. Il sospetto è quello che il presidente filippino abbia ben chiaro il percorso di politica estera da intraprendere, e voglia riaccendere i sentimenti anti americani dei filippini (non a caso Duterte ha detto almeno un paio di volte di aver litigato con l’ambasciatore americano a Manila, Philip Goldberg, chiamandolo testualmente “frocio figlio di puttana”), che comunque non si erano mai sopiti del tutto. Se qualcuno avesse potuto prevedere l’ascesa e l’elezione a presidente di Rodrigo Duterte, le analisi geopolitiche sull’Asia degli ultimi anni sarebbero state ben diverse. Per esempio Henry Kissinger avrebbe dedicato alle Filippine ben più che qualche citazione nel suo ultimo libro “Ordine mondiale”, pubblicato nel 2014. Perché il ruolo che Manila svolge negli equilibri asiatici e nel “pivot asiatico” dell’Amministrazione Obama non si limita a questioni geografiche e di alleanze strategiche. E la presidenza di Duterte, al potere per i prossimi sei anni, potrà cambiare molto del “Calderone asiatico” (copyright Robert D. Kaplan): per capirlo, basta mettere in fila alcuni episodi, tutti collegati tra loro.

 

Nel giugno scorso alcuni studenti di Manila hanno bruciato una bandiera americana, per protestare contro l’Enhanced Defense Cooperation Agreement (Edca), lo storico accordo siglato nel 2014 tra Stati Uniti e Filippine e ratificato dalla Suprema corte filippina il 26 luglio di quest’anno – a meno di un mese dall’entrata in carica del presidente Rodrigo Duterte. L’Edca, che prevede la rotazione di personale militare americano nelle Filippine e l’utilizzo di basi militari filippine da parte degli americani, per anni è stato considerato uno degli accordi più strategici per definire il ruolo statunitense in Asia. Sotto la presidenza di Benigno Aquino III, il pivot asiatico di Barack Obama non ha avuto intoppi, nonostante la Costituzione filippina vietasse la presenza di militari stranieri sul territorio. In realtà, la presenza militare americana nell’area avrebbe dovuto proteggere la regione dall’assertività cinese nel Mar cinese meridionale. Quando la Cina ha iniziato a fare sul serio, istituendo la cosiddetta Linea dei nove punti e rivendicando la territorialità delle isole Paracel e Spratly (rivendicate anche dalle Filippine), costruendo isole artificiali in acque limitrofe, Manila ha trascinato Pechino alla Corte di arbitrato internazionale dell’Aja avocando la Convenzione della legge del mare dell’Onu (trascinando si fa per dire: che la Cina non ha mai preso parte al processo visto che non riconosce il tribunale). In ogni caso, la sentenza emessa il 12 luglio scorso ha smontato sistematicamente le rivendicazioni territoriali cinesi, dando di fatto a Manila una risoluzione internazionale da sventolare contro il bullismo cinese. Quello che è successo dopo, però, non ha assunto la forma di una grande vittoria della legalità. Duterte, appena insediato, ha fatto capire in più occasioni di voler mantenere il punto sulle questioni territoriali ma di essere aperto al dialogo con la Cina. Un altro schiaffo all’Enhanced Defense Cooperation Agreement con l’America firmato dal suo predecessore.

 

I soldati americani di stanza a Mindanao fanno parte di un’altra operazione. Dopo l’attacco alle Torri gemelle di New York l’11 settembre del 2001, la presidente filippina dell’epoca, Gloria Arroyo, diede carta bianca a Washington per sistemare le cose anche nell’ex colonia. L’operazione Enduring Freedom-Philippines prevedeva l’invio dei reparti speciali – una media di seicento uomini – da affiancare agli omologhi filippini per combattere contro le fazioni di al Qaida locali, ma soprattutto contro il gruppo terroristico islamista Abu Sayaaf, oggi legato allo Stato islamico, contro Jemaah Islamiyah e contro i ribelli indipendentisti di etnia moro: il Fronte di Liberazione nazionale Moro e il sottogruppo del Fronte di Liberazione islamico Moro. La Arroyo, per far sbarcare i soldati statunitensi su suolo filippino, invocò l’applicazione del Trattato di mutua difesa che era stato stilato nel 1951, a guerra finita, ma che il montante nazionalismo filippino nel 1992 aveva fatto abbandonare.

 

Il complesso rapporto di Manila con Washington va ricercato nella storia. Le Filippine sono state territorio americano dal 1898 dal 1946. Gli Stati Uniti le strapparono agli spagnoli dopo un sanguinoso conflitto contro gli indipendentisti. Durante la Seconda guerra mondiale Manila era stata occupata dai giapponesi, e le Filippine conquistarono l’indipendenza soltanto in seguito alla resa di Tokyo, quando il generale Douglas MacArthur annunciò la liberazione: il 5 luglio del 1945. C’è una fotografia che Duterte ha mostrato in almeno due occasioni pubbliche diverse. E’ l’immagine dei corpi accatastati dei filippini di etnia Moro che furono massacrati nel marzo del 1906 a Bud Dajo, sull’isola di Jolo, per contenere la rivolta indipendentista.

 

Nonostante le denunce delle organizzazioni internazionali e la richiesta di fare luce sulle possibili violazioni dei diritti umani perpetrate da Duterte, The Punisher gode di un enorme sostegno da parte della popolazione filippina che non accenna a diminuire. Venerdì in visita a Davao, ha detto: “Hitler massacrò tre milioni di ebrei. Ora ci sono tre milioni di tossicodipendenti – pausa – sarei felice di massacrarli. Così, se la Germania ha avuto Hitler, le Filippine avranno me”. Duterte aveva iniziata la campagna contro il traffico di stupefacenti proprio a Davao, quando era sindaco. “Nel 2002 il magazine Time aveva ritratto Duterte in copertina con l’appellativo ‘Il punitore’ – ha scritto Andrea Pira su Left – La campagna anticrimine e antispaccio portata avanti quando era sindaco ha coinvolto squadroni e bande responsabili di centinaia di morti. La pretesa di aver reso la metropoli la più sicura dell’arcipelago si scontra con le statistiche che assegnano a Davao il primato per gli omicidi: 1.032 tra il 2010 e il 2015, un sesto di quelli compiuti nelle 15 principali città filippine. Il modello comunque è stato esteso a livello nazionale. Dall’entrata in carica a fine giugno, le operazioni sommarie della polizia o condotte da ronde auto-organizzate hanno fatto almeno duemila morti. Lo stesso presidente ha esortato i cittadini ad andare a catturare gli spacciatori nei loro quartieri”, scrive Pira. Secondo il Dangerous Drug Board del governo di Manila, almeno 1,8 milioni di filippini fa uso di droghe, ma secondo Duterte i consumatori sarebbero più del doppio, circa 3,7 milioni. “Nelle operazioni antidroga volute dal ‘Trump delle Filippine’ – ha scritto Fabio Polese su East – sono finite anche duecento persone, tra sindaci, giudici, deputati, militari e poliziotti, accusati di avere legami con il traffico di stupefacenti. ‘Non avevo capito quanto fosse grave e seria la minaccia in questa repubblica. Ora che sono presidente ho capito e chiedo altri sei mesi per continuare la lotta’”, ha detto il presidente.

 



Manila, la guerra senza quartiere al narcotraffico di Rodrigo Duterte (foto LaPresse)


 

A denunciare la situazione di terrore fomentata da Duterte nelle Filippine ci aveva provato Leila De Lima, senatrice ed ex segretario alla Giustizia, che in un discorso in Aula lo scorso 2 agosto aveva condannato la guerra alla droga del presidente: “Non possiamo condurre una guerra alla droga con il sangue”. Poco dopo si è scatenata una gogna mediatica contro di lei, accusata di avere una relazione con il suo autista (esisterebbe un video che lo prova, alcuni suoi oppositori hanno minacciato di proiettarlo al Senato) e di aver ricevuto soldi sporchi dal narcotraffico. Poi ci sono state le confessioni di Edgar Matobato, 57 anni, ascoltato al Senato nell’ambito dell’inchiesta parlamentare contro gli “squadroni della morte” organizzati per combattere il traffico di droga a Davao. Matobato, che faceva parte dello squadrone, ha detto che Duterte ordinava personalmente alcuni omicidi.

 

A un mese dall’elezione del nuovo presidente degli Stati Uniti, Washington è in una situazione di stallo nei rapporti con Manila. Di fatto questa è la migliore occasione possibile per la Cina (e per la Russia) per riaffermare l’egemonia nell’area. Nel frattempo, Duterte dice di aver ricevuto un report attendibile e di sapere che “la Cia ha in progetto di ucciderlo” (mercoledì, Intercontinental Hotel di Hanoi, Vietnam) e di essere pronto a un’alleanza strategica con Pechino e Mosca. La più grande differenza tra Duterte e Donald Trump, al momento, è probabilmente questa: il presidente filippino ha un piano ben preciso in mente.

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.