In un'installazione, l'immagine del presidente filippino Rodrigo Duterte e il soprannome "DU30", in un campo di riso a Los Banos city, a sud di Manila (foto LaPresse)

Tenere d'occhio Duterte serve a capire dove va l'Isis in Asia

Giulia Pompili
Con la perdita di terreno in medio oriente, lo Stato islamico punta sul reclutamento in Asia, e viste le difficoltà di viaggiare in Siria o Iraq, per molti foreign fighter asiatici “la scelta di Mindanao è la migliore”.

Roma. In questi giorni il presidente filippino Rodrigo Duterte si trova in visita di stato in Giappone. Dopo le dichiarazioni fatte in Cina sulla volontà di “separazione” delle Filippine con l’America, anche a Tokyo, capitale dell’alleato americano più forte nel Pacifico, Duterte ha insistito sulla questione: “Voglio il mio paese libero dalla presenza di forze militari straniere, e lo voglio nei prossimi due anni. E voglio rivedere o abrogare tutti gli accordi militari esistenti con altri paesi”, ha detto, riferendosi all’accordo di mutua difesa firmato tra Washington e Manila nel 2014 e alle annuali esercitazioni militari congiunte. La presenza militare americana nelle Filippine è legata anche (ma non solo) al problema dell’estremismo islamico nel sud-est asiatico. Un report pubblicato l’altro ieri dall’Institute for Policy Analysis of Conflict (Ipac), un think tank fondato nel 2013 a Giacarta, in Indonesia, analizza la situazione di gruppi legati allo Stato islamico presenti a Mindanao, e profila un legame con i fondamentalisti che vengono dall’Indonesia e dalla Malesia. Con oltre centomila chilometri quadrati di estensione, Mindanao è un’isola paradisiaca e selvaggia (così dicono le guide turistiche) nel sud delle Filippine. In un paese a maggioranza cattolica, Mindanao è la prima area in cui l’islam arrivò intorno al quattordicesimo secolo.  Qui, più che in altri luoghi, alle rivendicazioni territoriali della minoranza dell’etnia moro si unisce il fattore religioso, dando vita a un conflitto con lo stato centrale che dura da secoli – nonostante la creazione di una Regione autonoma nel Mindanao musulmano nel 1989. Mindanao sta diventando il centro dell’estremismo islamico in Asia.

 

Secondo l’Ipac uno dei problemi fondamentali della guerra al terrorismo nel sud-est asiatico riguarda la visione d’insieme: ogni paese che ha affrontato la minaccia terroristica con task force ben addestrate e analisti d’esperienza, in realtà finisce per concentrarsi esclusivamente sui movimenti dentro i propri confini. Al contrario, una delle fondamentali caratteristiche dello Stato islamico è la transnazionalità. Il sostegno alla causa del Califfato ha fatto fare un passo in avanti ai gruppi terroristici che per anni si sono occupati esclusivamente di rapire soprattutto stranieri per ottenere denaro dai riscatti: “L’Isis ha facilitato la cooperazione di clan e diverse etnie a Mindanao, ha ampliato il bacino di reclutamento per arrivare anche a studenti universitari esperti di informatica, ha adottato nuovi metodi di comunicazione e di finanziamento. Questo significa che non si tratta di se, ma di quando ricomincerà la violenza nelle Filippine, grazie alle alleanze di gruppi che supportano lo Stato islamico”.

 

Con la perdita di terreno in medio oriente, l’Isis punta sul reclutamento in Asia, e viste le difficoltà di viaggiare in Siria o Iraq, per molti foreign fighter asiatici “la scelta di Mindanao è la migliore”. L’Isis non ha ancora identificato l’area delle Filippine come una wilaya, una provincia del Califfato, eppure ha riconosciuto Isnilon Hapilon – altrimenti conosciuto come Abu Abdullah al Filipini – come emiro dello Stato islamico nel sud-est asiatico. Hapilon è il capo del guppo Abu Sayyaf, responsabile di rapimenti e attentati che sono finiti spesso sulle prime pagine dei quotidiani di mezzo mondo. Le vecchie analisi definivano Abu Sayyaf “il bancomat” delle organizzazioni terroristiche, perché più che un gruppo islamista era una formazione di banditi con non molti militanti, ma che nel 2004 riuscì a far saltare un traghetto uccidendo più di cento persone. Nel 2016 però, il gruppo di Hapilon si è staccato dall’Abu Sayyaf dell’isola di Sulu (sempre nel sud delle Filippine), e ha fortificato la sua presenza sull’isola di Basilan, dove accoglie foreign fighter dalla Malesia e dall’Indonesia. L’esercito filippino è ancora lontano dal definire un numero preciso dei militanti sull’isola di Basilan (approssimando per difetto, sarebbero almeno 400).

 

“Non sono sicura che la presenza degli americani sia il fattore cruciale per la capacità delle Filippine di combattere il terrorismo”, dice al Foglio Sidney Jones, direttrice dell’Ipac, “Dovrebbe esserci piuttosto più interazione pratica tra le agenzie di antiterrorismo in Indonesia, Malesia e Filippine, in modo da avere una visione condivisa del problema”. Secondo Jones, una collaborazione simile è più facile a dirsi che a farsi: “E’ l’esercito che possiede le informazioni nelle Filippine, mentre in Indonesia e in Malesia è la polizia. La cooperazione è resa difficile da questa differenza. I funzionari filippini hanno ben poca comprensione di come i gruppi affiliati all’Isis utilizzano Telegram, per esempio. Indonesiani e malesiani avrebbero molto da insegnare, ma non viene nemmeno riconosciuto il fatto che sarebbe necessaria questo tipo di collaborazione”, dice Jones. Ma il sud delle Filippine potrebbe mai essere la base di un nuovo Califfato asiatico? “Non credo. Gli islamisti troverebbero molta resistenza, anche da parte dei musulmani tradizionali come il Moro islamic liberation front. Ma penso che l’Isis potrebbe costituire un piccolo zoccolo duro di jihadisti istruiti e che condividono un’ideologia, parlano lo stesso linguaggio e possono operare fuori dalla regione”.

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.