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Tra i ragazzi del Front national che fissano i termini della loro rivalsa

Paola Peduzzi

Con i giovani di Marine Le Pen si parla di “disprezzo di classe” ed Europa, con un occhio all’ascesa di Mélenchon

"Non siamo mica i Républicains”, dice Davy mentre cerca di aprire una delle due piccole finestre della stanza, con ancora i resti di una serata passata – bottiglie di birra vuote, tappi, aloni appiccicosi sui tavoli – e le sedie di plastica accatastate. Questa è una sede parigina del Front national, un piccolo ufficio in rue Jeanne d’Arc (e dove sennò?), con Marine Le Pen appesa su tutti i muri e una parete di libri sul Front e sulle sue ispirazioni ideologiche e culturali: non c’è lo sfarzo della grande sede – comunque il quartier generale è a Nanterre, non in città –  e tutto, a partire dal cestino della spazzatura troppo pieno, restituisce un’immagine di quotidiana normalità. Non siamo mostri, non siamo bifolchi. Nel Front non ci sono ex banchieri col vezzo di oltrepassare il “clivage” destra-sinistra né politici con la passione per gli abiti costosi: c’è Marine con la sua retorica popolare, chiarissima, e ci sono i suoi sostenitori che si sentono impoveriti, sminuiti, trattati come estremisti, e che aspettano il 23 aprile per dare una forma concreta e visibile alla loro rivoluzione. La normalizzazione su cui Marine Le Pen ha costruito la sua storia elettorale, cercando di far dimenticare gli eccessi del padre pur tenendosi stretti molti consiglieri e molti istinti di quel passato semi-impresentabile, è qui di fronte, nei volti di tre ragazzi che fanno campagna per il Front nelle università, nelle strade, nei bar, nelle chiacchiere serali con amici che “se non la pensano come noi, pazienza, capiranno prima o poi che abbiamo ragione”.

 

Davy Rodriguez, che lavora nella direzione nazionale del Front national jeunesse, i giovani per Marine, è un po’ francese, un po’ portoghese, un po’ spagnolo, e sulla scorta della sua “mixité” dice che l’Europa è bella, “siamo noi”, è l’Unione europea ad aver distrutto tutto. E’ la distinzione che fanno anche i “brexiteers” nel Regno Unito, come per sottolineare che il divorzio non ha niente di personale, gli europei sono fantastici, solo che si sono organizzati male e a noi conviene stare da soli. La convenienza è una materia difficile da maneggiare, gli stessi inglesi non sanno se usciranno più poveri o più ricchi dalla Brexit, e non lo sanno certo i francesi, che pagano bollette e mutui in euro e rabbrividiscono all’idea del ritorno del franco. “Sceglierà il popolo”, dice Davy, confermando le sfumature che la Le Pen ha voluto introdurre in corsa durante la campagna elettorale: si augura la Frexit, ma non vuole apparire spaventosa, e così sarà il volere popolare a diventare legge. Vogliamo scegliere, “la Brexit questo ci ha detto, che possiamo scegliere”, dice Davy, “la sovranità è importante, questo è un paese che è stato colpito dal terrorismo più volte, è un paese di immigrati, è importante che siamo noi a decidere come difenderci, come e con chi integrarci”.

 

Davy ha una storia politica personale che è la fotografia esatta della Francia di oggi. Lui nasce come attivista di Jean-Luc Mélenchon, oggi leader della France insoumise ma storicamente “frondeur” d’eccezione del Partito socialista, campione della lotta alla diseguaglianza, del reddito di cittadinanza, delle tasse ai ricchi, dell’ecologismo e del “socialismo nella sua forma più sociale”. Oggi Mélenchon è in grande ascesa, s’è avvantaggiato della crisi del Partito socialista e della candidatura riformatrice di Emmanuel Macron spostata al centro, rosicchiando consensi tra chi, a sinistra, non potrebbe mai concedersi all’ubercapitalista leader di En Marche! In realtà, come si vede anche in altri contesti europei, Mélenchon parla allo stesso elettorato di Marine Le Pen, quelle classi medie che si sono sentite tradite dalla globalizzazione e dalla politica tradizionale: i punti di contatto sono grandi, sull’economia e sulla politica internazionale in particolare, ma a far migrare Davy da Mélenchon alla Le Pen è stata la questione europea: “Il trattamento che Bruxelles ha riservato ai paesi mediterranei, che costituiscono la mia identità – dice – mi ha convinto che era intollerabile la nostra partecipazione a un progetto che non è solidale, ma escludente. Nel 2015 sono passato al Front, perché la gestione dei nostri rapporti con l’Ue è stata quasi umiliante”.

 

Non è che Mélenchon pensi qualcosa di molto diverso da questo, anzi: dice che l’Europa ha fallito e che bisogna far parlare il popoli europei e quello francese, la democrazia diretta sopra ogni cosa. Non c’era bisogno di passare al Front, insomma, ma Davy sostiene che non si tratta di sfumature, che l’approccio della Le Pen è più chiaro e più comprensibile dei ghirigori retorici in cui si rifugiano gli altri candidati. Soprattutto: la Le Pen ha fatto breccia, tutta la campagna elettorale gira attorno a lei, “è lei che fissa i termini del dibattito, gli altri sono costretti al limite a rispondere”. Qualcuno non lo sa fare e qualcuno invece lo fa benissimo, come Mélenchon, “il candidato alla moda” che compete sul terreno del Front senza doversi spazzolare di dosso macchie nere, e che ora prende voti anche a destra, così raccontano i giornali, mentre il suo “prenderemo i potenti per i capelli” risuona improvvisamente irresistibile.

Ma questi giovani del Front hanno già fatto la loro scelta, non temono la concorrenza dell’ultimo arrivato, non al primo turno almeno, raccontano le loro storie da bifolchi percepiti, in realtà normalissimi. Una di loro si vuole candidare a livello locale, ma dice che userà un altro nome perché “vorrei lavorare nella comunicazione e so che l’appartenenza al Front sarebbe un buon motivo per non assumermi”; un altro è giovanissimo e battagliero, dice che la comunicazione sulla Le Pen è falsata, “perché è chiaro che i media stanno con Macron” e tentano allo stesso tempo “l’impresa bizzarra” di farlo passare come un candidato-outsider, fuori dal sistema. Nei tanti stravolgimenti che hanno scandito la campagna presidenziale, le parole più dure sono riservate a Macron e a François Fillon, l’ex argine alla Le Pen che ora viene quasi superato da Mélenchon. Questi ragazzi parlano di “disprezzo di classe” nei loro confronti, dicono che la faida tra Marine e la nipotina Marion “è un’invenzione dei media”, ti guardano sorpresi quando citi l’antisemitismo – “gli unici antisemiti in questo paese sono gli islamici” –, ricordano che i comizi sono feste piene di gente, sognano di oltrepassare il 35 per cento e di fissare così i termini della rivalsa. Ma avete dei numeri precisi? Si guardano sorridendo, è tutto falsato, voi media falsate tutto, “alla fine rideremo noi”, e tutti pensiamo a Trump, ma non ce lo diciamo.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi