I rilievi della scientifica nell'area dove è stata avvelenata l'ex spia russa, Sergei Skripal (foto LaPresse)

Com'è arrivato il gas a Salisbury? Londra impazzisce per l'ultima storia di spie

Cristina Marconi

Il caso dell'ex agente segreto avvelenato. Tra Le Carré, MI6 e KGB

Londra. Armi chimiche a Salisbury. Una “sostanza rara”, ha detto il ministro dell’Interno Amber Rudd prima di lanciarsi nelle minacce di rito: “Agiremo senza esitazioni, si chiariranno le circostanze” di un “tentativo di omicidio commesso nel modo più pubblico e crudele” e, soprattutto, va detto, imbarazzante per il governo, ossia con sostanze pericolose per la popolazione in un luogo affollato in pieno giorno.

  

  

Nella fiera dell’expertise che sta andando in onda su una stampa britannica in piena sindrome Le Carré, alcuni tecnici parlano di sarin, visto che i sintomi di Sergei Skripal e di sua figlia Yulia – bava alla bocca, spasmi – sono simili a quelli osservati in Siria, mentre altri assicurano che no, potrebbe essere VX, quello del fratello di Kim Jong-un, o qualcosa di più raro ancora, forse il soman, senz’altro qualcosa che viene dai laboratori del governo russo come Yasenovo, alle porte di Mosca. Di tutto questo si sta occupando un altro laboratorio, quello della difesa di Porton Down, e lì le idee sarebbero già abbastanza chiare: il problema è ora capire come il gas nervino sia arrivato nel Regno Unito e come sia stato somministrato. Qualcuno parla di un “regalo da parte di amici” che Yulia avrebbe portato al padre dalla Russia – già, ma com’è possibile che andasse e tornasse a suo piacimento dopo tutte le morti sospette in famiglia, tanto sospette che anche le tombe dei parenti sono state transennate? – altri suggeriscono che qualcosa gli sia stato spruzzato addosso, o fatto ingerire.

 

  

Intanto starebbe un po’ meglio l’agente ricoverato dopo essere intervenuto ad aiutare l’ex spia, “britannica, visto che lavorava per l’MI6” secondo la precisazione dello strepitoso account Twitter dell’ambasciata russa. Il poliziotto parla ed è lucido anche se rimane in condizioni delicate, mentre su Skripal le notizie non sono buone, peggiori di quelle riguardanti la figlia. Sarà pure stato molto simpatico ai negozianti da cui si fermava a chiacchierare comprando decine di gratta e vinci, ma certo di nemici deve averne accumulati molti, Skripal, che secondo un altro retroscena sarebbe stato in contatto con un collaboratore della Orbis, la società di intelligence di Christopher Steele, l’autore del dossier russo su Donald Trump.

 

E quindi messe da parte le frasi in stile Ivan Drago dette da Vladimir Putin sui traditori – “schiatteranno”, soffocati dai soldi per cui si sono venduti – ci si inizia a interrogare su quello che ha fatto Skripal dopo il 2010, in seguito a quello scambio di spie con cellule dormienti russe negli Stati Uniti dopo il quale, secondo chi ne sa di spionaggio, di solito si viene lasciati tranquilli: chi sa troppo viene ucciso subito, gli altri affidati ai paesi con cui hanno collaborato, sennò che senso avrebbe? E poi perché dare solo tredici anni di carcere a uno che si è venduto i nomi dei colleghi? Londra pullula di ex spie, Oleg Gordievski se ne sta da trent’anni indisturbato in giro per la città, e se è vero che la mortalità tra gli esuli è un po’ troppo alta, ci sono delle riflessioni da fare prima di puntare l’indice contro il Cremlino: il regolamento di conti tra ex spie secondo molti è ben più verosimile di un suicidio di politica estera da parte di un Putin sotto elezioni. Marie Dejevsky sull’Independent, giornale di proprietà di Aleksandr Lebedev, ex KGB ed ex oligarca, mette in risalto le differenze tra Sasha Litvinenko, un pesce piccolo che gli Stati Uniti non hanno voluto perché non aveva grandi segreti da rivelare e che ha iniziato a collaborare con l’MI6 dopo essere arrivato a Londra, e Sergei Skripal. Anche lui, secondo il suo ex collega Valeri Morozov, non era esattamente un pensionato ma, in maniera piuttosto sorprendente, andava all’ambasciata russa tutti i mesi per delle riunioni di intelligence, facendo una vita “pericolosa”. Altri parlano di certi briefing dati ai militari britannici. Nessuna conferma, né in una direzione né nell’altra, anche perché, come sottolinea la veterana Dejevsky, “quello che i casi Litvinenko e Skripal hanno in comune, insieme ad altre delle morti misteriose di esiliati russi, è il coinvolgimento dell’intelligence britannica”. Non che l’abbiano fatto loro, sia chiaro, ma aspettarsi di conoscere tutta tutta la verità è un errore che un lettore di Le Carré non farebbe mai.

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