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Rimborsi e M5s. Senza moralismo ai moralisti non resta che il nulla: Di Maio

Claudio Cerasa

Grillismo demolito dai mostri alimentati dal grillismo. Cosa dicono sull’incapacità politica i rimborsi tarocchi del M5s. Gioioso j'accuse contro gli impresentabili del moralismo

Diceva con saggezza Pietro Nenni, leader storico del Partito socialista italiano, che chi si mette a fare a gara a chi è più puro prima o poi troverà sempre qualcuno più puro che lo epura. Ecco. Se vogliamo capire in modo plastico il dramma politico vissuto in queste ore dal Movimento 5 stelle, prima ancora di mettere a fuoco le conseguenze dell’inchiesta delle “Iene” – che hanno scoperto l’inganno di alcuni parlamentari grillini, che invece di restituire parte del proprio stipendio a un fondo di microcredito per le piccole e medie imprese, come avevano promesso ai propri elettori, hanno presentato per anni bonifici fittizi, revocati cioè subito dopo essere stati fatti, per un totale di circa 500 mila euro, o forse addirittura un milione d’euro, niente male – occorre fare un piccolo passo indietro. Occorre riavvolgere il nastro e tornare allo scorso dieci ottobre, a una scena epica materializzatasi di fronte a Montecitorio. In quelle ore, il Parlamento discuteva di legge elettorale, il Rosatellum era a un passo dall’essere approvato e nella confusione generale Alessandro Di Battista decise di uscire fuori dalla Camera e di andare in piazza a parlare alla sua ggente. La scena la ritrovate ovunque: Di Battista sale su un marciapiede, impugna un megafono, si guarda intorno, sorridente, e ringrazia tutti. “Mi sentite? Grazie. Grazie a tutti. Siete tantissimi. Grazie a tutti”. Brusii, fischi. “Grazie, grazie a tutti. Vedete…”, buuuuuu, “questa è l’ennesima legge che garantisce ai partiti politici”, buuuuu, “di nominarsi i parlamentari. Io mi auguro che”, buuuuu, “non si azzarderanno a mettere la fiducia, cosa che hanno fatto due volte nella storia: prima Mussolini con la legge Acerbo e poi De Gasperi con la legge truffa”. Neanche il tempo di sbagliare un congiuntivo e Alessandro Di Battista capisce che la folla che stava provando ad arringare non era una folla grillina ma era una folla figlia del grillismo: una folla deliziosa composta da No Vax incazzati, forconi indignati, neoborbonici assetati, sovranisti arrabbiati che all’improvviso, facendo proprio l’intero manuale del perfetto fustigatore grillino, in coro, guidati dall’ex generale Pappalardo, invitano Di Battista ad andarsene a quel paese: “Siete abusivi. Fuori. Dimettiti. State con la Goldman Sachs. Di Battista, hai rotto il c…”.

 

 

Le proporzioni sono diverse ma la scena vissuta a ottobre da Alessandro Di Battista di fronte al Parlamento è, in piccolo, la stessa identica scena vissuta oggi da Luigi Di Maio: il grillismo moralizzato, colpito dalle stesse armi oscene con cui il grillismo ha provato a demolire i propri avversari negli ultimi anni, moralizzandoli cioè con ogni mezzo a disposizione. In questo senso, la storia dei rimborsi tarocchi dei parlamentari Andrea Cecconi e Carlo Martelli – e forse non solo loro – può essere raccontata utilizzando due chiavi di lettura. La prima è quella utilizzata da gran parte degli osservatori che in queste ore ci sta raccontando che ah, quanto era bello il grillismo originario. E’ una chiave a sua volta grillina e suona più o meno così: lo vedi, questi grillini sono come tutti gli altri, imbrogliano i propri elettori, raccontano molte frottole, mettono in lista massoni anche se dicono che i massoni non li vogliono, mettono in lista picchiatori anche se dicono che i picchiatori non li vogliono, mettono in lista chi non rispetta il loro codice etico anche se dicono di non accettare chiunque non rispetti il loro codice, e alla fine sono lì a tradire i sani principi da cui erano partiti (una volta qui era tutto un vaffa, signora mia). La seconda chiave di lettura, invece, che è quella che proviamo a offrirvi, è una chiave più sofisticata. Ovverosia: non esiste una forma di moralizzazione buona e una forma di moralizzazione cattiva e non esiste un grillismo buono e uno cattivo. Esiste, molto semplicemente, una dannosa truffa politica chiamata moralismo, che un pezzo importante del nostro paese ha scelto da anni di considerare non un virus letale ma al contrario un utile antibiotico da somministrare all’Italia per provare a guarirla dai suoi mali. E in nome di questo principio, è ovvio, diventa moralmente accettabile solo chi sceglie di abbracciare alcuni valori chiave: l’approvazione della gogna, la denigrazione dell’avversario, la codificazione della cultura del sospetto, la trasformazione di ogni accusa in una condanna, la legittimazione di ogni battaglia politica combattuta per via giudiziaria, la benedizione di ogni forma di killeraggio giornalistico, la prevalenza dell’agenda moralista sull’agenda riformista e l’affermazione dell’idea che l’unica forma di onestà necessaria per un politico sia quella che compete non alla sua capacità ma alla sua morale.

 

Il grillismo, l’idea dell’uno vale uno, l’idea che la non competenza possa essere non un drammatico disvalore ma un formidabile valore, nasce proprio da questi princìpi. Nasce cioè dall’idea che per guidare un paese non sia necessario sapere far qualcosa, ma sia necessario essere solo genericamente “onesti”, solo genericamente “alternativi alla casta”, solo genericamente “alternativi a un sistema che non funziona”. Nasce, in sostanza, dall’idea che le uniche competenze necessarie per guidare un paese non siano quelle che appartengono a un preciso modello di governo, ma quelle che appartengono a un preciso modello di opposizione – e non è un caso che uno dei candidati su cui il Movimento 5 stelle ha scelto di investire in modo più generoso in questa campagna elettorale sia un particolare candidato, una ex Iena, ovviamente Dino Giarrusso, che, in attesa di essere moralizzato a sua volta, ha fatto delle campagne contro l’establishment un tratto distintivo del suo essere giornalista, fino a utilizzare la campagna del Me Too come se fosse una prosecuzione naturale, solo con altri mezzi, della battaglia giustizialista contro il sistema corrotto e marcio. Le uniche competenze sono queste: andate tutti a quel paese. Conta solo il moralismo. Conta solo l’anticasta. Conta solo la demolizione dell’avversario. Tutto il resto – ovvero la competenza, l’esperienza, il garantismo, la Costituzione, lo stato di diritto, il rispetto della privacy, la complessità della politica, il rispetto delle istituzioni – sono solo chiacchiere buone per qualche gargarismo. E’ chiaro? E’ chiaro. Questo giochino per qualche anno può funzionare – e funziona benissimo in quei paesi dove anche la classe dirigente triangola con i populisti a colpi di battaglie anticasta, ops – ma a un certo punto arriva sempre un momento in cui anche chi ha spacciato per antibiotico il virus capisce che un virus resta sempre un virus. E capisce, cioè, che se a un moralista togli il moralismo non resta più nulla.

 

Nel 2012 Antonio Di Pietro, altro figlioccio della Casaleggio Associati, ari-ops, sperimentò sulla sua pelle cosa significa per un moralista essere moralizzato con le stesse armi usate dal moralista per moralizzare i suoi avversario.

  

E, come ricorderete tutti, la carriera politica dell’ex pm di Mani pulite finì proprio dopo un famoso servizio di “Report” sui rimborsi elettorali usati in modo opaco dall’Italia dei Valori. Era il primo novembre 2012 e Di Pietro disse: “L’Italia dei Valori è finita domenica sera, a ‘Report’. Mediaticamente siamo morti. Siamo vittime di un killeraggio, di un sistema politico e finanziario che non ha più bisogno di noi”. Probabilmente, per Luigi Di Maio la fase Di Pietro non è ancora arrivata – quella Pappalardo sì. Ma è possibile che dentro di se il candidato premier del Movimento 5 stelle sia consapevole di un fatto difficilmente contestabile: come sempre accade a chi tenta di promuovere un governo degli onesti, alla fine il moralista non può che essere lentamente inghiottito, e poi sputato, dallo stesso mostro moralista alimentato per anni. E così, è ovvio che un moralista che ha spiegato per anni che ogni indagato deve essere considerato colpevole fino a sentenza definitiva non può che finire in mutande, buuuuu, nel momento in cui i suoi pezzi da novanta si ritrovano indagati (lo è Virginia Raggi, sindaco di Roma; lo è Chiara Appendino, sindaco di Torino; lo è Filippo Nogarin, sindaco di Livorno). E così, è ovvio che un moralista che ha spiegato per anni che la politica onesta è solo quella trasparente non può che finire in mutande, buuuuu, nel momento in cui si dimostra che chi gestisce il suo movimento lo fa in modo non trasparente mettendo a rischio persino la privacy dei suoi iscritti, i cui voti sono tutti potenzialmente tracciabili (“I voti espressi tramite le funzionalità di e-voting offerte dalla piattaforma – ha scritto il Garante della privacy a proposito di Rousseau – vengono archiviati, storicizzati e restano imputabili a uno specifico elettore anche successivamente alla chiusura delle operazioni di voto, consentendo elaborazioni a ritroso con, in astratto, la possibilità di profilare costantemente gli iscritti, sulla base di ogni scelta o preferenza espressa tramite il sistema operativo”). E così, è ovvio che un moralista che ha spiegato per anni che ogni compromesso corrisponde automaticamente a un inciucio non può che finire in mutande, buuuuu, quando è costretto a dire l’ovvio ovvero sia che un movimento che vale forse più del 25 per cento in caso di buon risultato deve valutare se sia possibile fare compromessi anche con partiti non guidati da Davide Casaleggio. E allo stesso modo, infine, è evidente che un moralista che ha spiegato per anni che il politico “puro” deve intendere il suo mestiere come un servizio offerto a titolo quasi gratuito non può che finire in mutande quando campioni del giornalismo grillin-voyeurista come le “Iene” – campioni mossi generalmente dall’idea che per combattere la casta sia legittimo ogni mezzo, anche quello di diffondere bufale scientifiche – scoprono che diversi parlamentari hanno tentato in modo goffo di fare quello che ogni parlamentare avrebbe il diritto di fare: vivere del proprio lavoro con uno stipendio adeguato all’importanza del proprio compito. Buuuu! Ovviamente, non sappiamo come andrà a finire questa spassosa storia dei rimborsi tarocchi. Ma sappiamo che la storia recente dell’Italia ci dice due cose. Ci dice che non c’è moralista – “Siete abusivi. Fuori. Dimettiti. State con la Goldman Sachs” – che non sia stato inghiottito dallo stesso moralismo che ha alimentato. E ci dice che non c’è moralista che a un passo dalle elezioni non sia stato colto dallo stesso dubbio suggerito anni fa da Benedetto Croce. “E’ strano che laddove nessuno, quando si tratti di curare i propri malanni o sottoporsi a una operazione chirurgica, chiede un onest’uomo, e neppure un onest’uomo filosofo o scienziato, ma tutti chiedono e cercano e si procurano medici e chirurgi, onesti o disonesti che siano, purché abili in medicina e chirurgia, forniti di occhio clinico e di abilità operatorie, nelle cose della politica si chiedano, invece, non uomini politici, ma onest’uomini, forniti tutt’al più di attitudini d’altra natura”. L’onestà politica non è altro che la capacità politica: come l’onestà del medico e del chirurgo è la loro capacità di medico e di chirurgo. E se a un moralista incapace togli il moralismo non gli resta che il nulla. Non gli resta che Luigi Di Maio.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.