Il neozelandese Edmund Hillary a Kathmandu, Nepal, nel 1953. E' il primo alpinista ad aver raggiunto la vetta dell'Everest, insieme con lo sherpa Tenzing Norgay (foto LaPresse)

Politica della vetta

Giulia Pompili

Il Nepal ha scelto di trasformare la montagna più alta e più famosa del mondo, l'Everest, nel simbolo del protezionismo alpino. Ma senza turismo c'è solo la Cina

Tutto sta cambiando, in Nepal. E’ forse per questo che la scomparsa di Elizabeth Hawley, venerdì scorso, assume un significato ancora più profondo. Novantacinque anni, la Hawley era soprannominata la “Sherlock Holmes delle montagne”, una specie di leggenda del Nepal e degli stranieri che frequentano il Nepal – tanto che nel 2014 il governo di Kathmandu aveva deciso di dedicarle una vetta della catena himalayana al confine con il Tibet, a 6.182 metri. Nata a Chicago nel 1923, dopo la laurea in Storia si spostò a New York, e tra il ’59 e il ’60 iniziò a frequentare il Nepal, fino a stabilirsi definitivamente a Kathmandu come corrispondente per il Time. E’ lì che la Hawley, senza marito né figli, inizia la sua carriera come cronista di montagna, e finisce per dedicare la sua vita alla bibbia degli alpinisti dell’Himalaya, l’“Himalayan database” – un registro di tutte le scalate avvenute dal 1905 fino al 2017, cioè i big data quando ancora non esistevano. La scomparsa di Elizabeth Hawley è uno dei grandi cambiamenti, politici soprattutto, che si stanno consumando nel piccolo paese himalayano, stretto tra le pressioni geopolitiche cinesi e quelle indiane, e il desiderio di emancipazione, che passa anche attraverso il turismo di montagna. 

 

Negli ultimi diciotto mesi Hari Bahadur Budha Magar si è allenato per raggiungere la vetta del monte Everest. La partenza della spedizione “Conquering Dream” era prevista per la prossima primavera. Ma il nuovo regolamento del governo nepalese, che a fine dicembre ha introdotto una serie di divieti per le scalate della montagna più famosa del mondo, rischia di far saltare tutto il progetto, su cui sponsor e volontari avevano investito una cifra vicina ai 350 mila dollari. Il problema è che Budha Magar, trentasette anni, cittadino nepalese originario di un’area rurale del distretto di Rolpa, è un veterano di guerra della Brigata Gurkha – la famigerata unità scelta dell’esercito inglese, che sin dal 1815 accetta volontari dal Nepal. Ha perso le gambe nel 2010 in Afghanistan, durante una missione alla quale partecipava pure il principe Harry come controllore di volo. Da quanto è stato amputato, Budha Magar ha partecipato agli Invictus Games, ha scalato diversi Quattromila – compreso il Monte Bianco – ma non potrà scalare il più famoso Ottomila del suo paese natale. Per adesso. 

 

A fine dicembre il Consiglio dei ministri nepalese ha approvato le nuove regole per l’alpinismo nel paese, che riguardano soprattutto la montagna più famosa del mondo. Il Mountaineering Expedition Regulation è stato implementato con le modifiche richieste dal ministero del Turismo di Kathmandu, ma con un cambio di strategia in senso protezionista del suo prodotto d’esportazione più famoso: l’Everest. Ufficialmente emendato per “migliorare le condizioni di sicurezza degli alpinisti”, il regolamento consegna più potere al ministero del Turismo ma, soprattutto, maggiori diritti e quindi più potere alle guide alpine nepalesi, gli sherpa.

 

La prima limitazione riguarda gli alpinisti come Budha Magar: secondo il nuovo regolamento la scalata sarà vietata a chi è stato amputato di braccia o gambe e ai non vedenti. Una decisione che ha creato polemiche per via della natura discriminatoria del provvedimento. Niente più Erik Weihenmayer, l’americano non vedente che per primo arrivò in vetta nel 2001, seguito poi soltanto dall’austriaco Andy Holzer, che ci è riuscito lo scorso anno. Secondo il ministero del Turismo, a partire dal 2018 verranno esaminati con più accuratezza anche i certificati medici dei normodotati, per garantire che gli aspiranti siano “fisicamente in forma” per scalare la montagna.

 

Ma tra le limitazioni imposte da Kathmandu che hanno creato più polemiche ce n’è una, che è particolarmente politica. A partire da quest’anno, infatti, non sarà più possibile per gli alpinisti stranieri tentare l’arrampicata delle vette nepalesi in solitaria. Sarà necessario, quindi, una guida esperta che li accompagni. “Uno dei principali cambiamenti introdotti dal regolamento è l’obbligatorietà di essere accompagnati dalle guide durante la scalata, compresa quella della vetta più alta del mondo”, scrive il Kathmandu Post. “D’ora in poi, agli scalatori stranieri sarà vietato tentare la scalata in solitaria sul Monte Everest. Questo provvedimento garantirà agli scalatori stranieri di essere nelle mani delle guide o degli scalatori di alta montagna nepalesi. Inoltre, secondo i funzionari del governo, questo vorrà dire più posti di lavoro per i nepalesi. Con l’aumento del numero di alpinisti sul Monte Everest, ultimamente sono aumentati anche il numero di incidenti. Vladimir Strba, alpinista slovacco di 49 anni, e l’alpinista svizzero Ueli Steck, sono morti sull’Everest mentre salivano in solitaria durante la scorsa primavera. Non è ancora chiaro se il governo permetterà alle guide straniere con licenza di effettuare salite in solitaria o di lavorare come guide”. Quando nel 1980 la leggenda italiana delle montagne, Reinhold Messner, scalò l’Everest per la prima volta da solo, e senza bombole d’ossigeno, la sua impresa sembrava una specie di suicidio consapevole ed eroico. Ma quella volta Messner tornò, e cambiò per sempre non solo la storia dell’alpinismo ma anche la percezione delle capacità umane, oltre ad aver dato un enorme significato politico alla vicenda: era stato un italiano, per capirci, non un nepalese, il primo a raggiungere la vetta più alta del mondo da solo. 

 

Nel 2017 l’ufficio del turismo nepalese ha autorizzato a salire sull’Everest 375 gruppi rappresentati da 42 team – l’autorizzazione per scalare la montagna, per legge, costa a persona circa diecimila dollari, cui si aggiungono le spese della spedizione commerciale e delle guide. Alla fine della stagione, secondo i dati del ministero, 449 persone avrebbero raggiunto la vetta, 259 nepalesi e 190 stranieri. Secondo varie fonti, il numero record di tentativi di raggiungere la vetta dello scorso anno sarebbe dovuto al fatto che sia nel 2014 sia nel 2015 gran parte delle missioni commerciali, durante i pochi mesi disponibili della stagione primaverile, sono state cancellate. Nel 2014 una valanga ha ucciso sedici sherpa sulla cascata di ghiaccio di Khumbu. L’anno successivo un terremoto di magnitudo 7,8 il 25 aprile ha fatto almeno novemila vittime in tutto il Nepal, e provocato varie valanghe sull’Everest. Tra gli alpinisti ci sono stati ufficialmente diciannove morti, di cui dieci sherpa e cinque arrampicatori stranieri – altre quattro persone non sono mai state identificate. La tragedia di aprile, cui sono seguite varie scosse di assestamento e quindi altre valanghe, aveva costretto il governo a chiudere la stagione delle ascese per tutto il 2015.

 

Nel 2017 ci sono stati sei morti sull’Everest. Domenica 21 maggio, nello stesso giorno, sono decedute quattro persone, e tutte e quattro partecipavano a diverse spedizioni commerciali. Francesco Enrico Marchetti, australiano di 54 anni, secondo le ricostruzioni sarebbe caduto durante la discesa, a cinquecento metri di distanza dalla vetta, ufficialmente per il mal di montagna – la patologia che sopraggiunge quando ci si trova ad altitudini estreme e senza sufficiente ossigeno. E poi lo slovacco Vladimir Strba, il medico americano Roland Yearwood, e l’indiano Ravi Kumar, di ventisei anni, ancora disperso. Quindici giorni prima aveva perso la vita il nepalese Min Bahadur Sherchan, di ottantacinque anni: era riuscito a raggiungere per la prima volta la vetta dell’Everest nel 2008, a settantasei anni, diventando l’uomo più vecchio a compiere l’impresa. Ma cinque anni dopo un giapponese più vecchio di lui, Yuichiro Miura, che nel 2013 aveva ottant’anni, gli scippò il record. Min Bahadur Sherchan voleva riprenderselo.

 

Le spedizioni commerciali sono una delle maggiori fonti di guadagno per il ministero del Turismo nepalese. Ma le spedizioni commerciali non esisterebbero, non del tutto almeno, senza il lavoro delle guide nepalesi, che attrezzano i passaggi e accompagnano gran parte delle spedizioni. Quando nel 2014 la valanga uccise i sedici sherpa, iniziò un violento braccio di ferro tra le guide nepalesi – che si considerano sfruttate e malpagate, e tutto, secondo il luogo comune, per favorire i ricchi turisti occidentali che sfidano i propri limiti – e gli operatori commerciali internazionali che organizzano le scalate. Già allora Simone Moro, uno dei più grandi alpinisti italiani, diceva alla Stampa: “Sull’Everest va troppa gente: verrà il giorno che molti potrebbero rimanere bloccati e morire su quella montagna. Non sarebbe meglio pensare a un numero chiuso? ‘Sarebbe la fine di un’economia. Gli Sherpa per primi e perfino il governo nepalese non possono rinunciare a un’attività che offre loro possibilità di sviluppo. Per noi è facile parlare di numero chiuso. No, ci vuole un tavolo tra sherpa, guide delle spedizioni commerciali e governo per studiare e decidere il da farsi, prima che la situazione sfugga di mano e sia incontrollabile’”.

 

Ma è più probabile che l’Everest si stia trasformando ancora una volta in un obiettivo politico per l’instabile governo nepalese. Le prime elezioni parlamentari e provinciali, che si sono tenute alla fine dello scorso anno, sono state stravinte dai comunisti, che hanno promosso un solo, semplice programma: stabilità. Il 6 gennaio scorso, nel mezzo delle polemiche sul nuovo regolamento che riguarda le montagne himalayane, il primo ministro Sher Bahadur Deuba ha ricevuto cinque giornaliste, volti noti della tv e della carta stampata del Nepal, che nel maggio prossimo dovrebbero tentare la scalata dell’Everest. Il governo ha garantito al gruppo un sostegno economico e l’ascesa gratuita “perché siano di ispirazione per tutte le donne nepalesi al raggiungimento della vetta”. Più o meno dello stesso tenore la nuova avventura molto pubblicizzata sulla stampa nepalese di Pema Diki Sherpa, una delle più famose alpiniste nepalesi, che a marzo vorrebbe raggiungere la vetta dell’Everest “per avere un ruolo nel creare una società più adatta alle donne, equa”. Non a caso dal 2015 c’è una donna alla presidenza della Repubblica nepalese, Bidhya Devi Bhandar – che poi è anche la seconda persona ad essere presidente della Repubblica, da quando cioè il Nepal è diventato una democrazia, dieci anni fa. E così l’Everest è politica, anzi soprattutto politica, e il caos dei governi che si sono succeduti in questi dieci anni non fa che confondere la situazione. Ang Tshering sherpa, presidente della presidente della Nepal Mountaineering Association, spiegava già nel 2016 alla Cbs che i soldi sono soldi, per il governo, e ogni regolamentazione nelle spedizioni commerciali non è possibile nemmeno discuterlo, per via della ormai proverbiale instabilità del governo di Kathmandu: “L’Everest si sta riempendo di alpinisti senza alcuna esperienza che cercano di spingersi troppo oltre le loro possibilità”. E la montagna quindi si riempie di organizzazioni low cost – società senza nessuna cautela per quanto riguarda l’equipaggiamento, per esempio, o i corsi di primo soccorso – o di operatori che evitano di dire che i propri clienti, magari, non sono in grado di scalare la montagna. C’è poi l’enorme problema del sovraffollamento durante la stagione primaverile: aspettare per effettuare un passaggio, perché troppo affollato, significa esporsi troppo tempo all’alta quota. 

 

La selezione all’ingresso per la vetta dell’Everest, trasformando la montagna più alta del mondo nel simbolo del protezionismo alpino, è la prima risposta politica di questo nuovo Nepal. Anche le imprese eroiche saranno a numero chiuso.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.