Merda (e altro) d'artista. Piero Manzoni

Angiolo Bandinelli

La chiuse dentro un barattolo e diventò preziosa. Geniale innovatore, come Andy Warhol. Diede scandalo quando presentò, nel 1961, quella che sarebbe diventata la sua opera più famosa, ancora oggi contesa alle aste. Ma c’erano anche le uova e i panini

Ma sì, possiamo vantarlo anche noi un Warhol, quasi un vero Andy Warhol. Si chiamava Piero Manzoni e fu artista non meno geniale e innovatore dell’estroverso slovacco-americano. Warhol, morto a cinquantanove anni, il suo talento riuscì a dispiegarlo, Manzoni se ne è andato all’improvviso, nemmeno trentenne, chi sa dove sarebbe potuto arrivare. Sul mercato, Warhol è sempre al top ma Manzoni comincia a salire. A una recente vendita d’asta, a Milano, una sua “Merda d’artista n. 069”

L’arte “da mangiare” e la performance del 21 luglio 1960 in una galleria milanese: 150 uova sode con l’impronta del pollice, divorate dal pubblico

del 1961 è stata battuta per la cifra record di 275.000 euro. Secondo testimonianze attendibili, in tutta la sua vita Manzoni non avrebbe realizzato più di 250 opere, sembra però che circolino molti falsi. La casa d’aste che ha venduto il pezzo è seria e affidabile, ma i falsari vampirizzano le firme eccellenti del Novecento italiano.

Warhol e Manzoni: le loro opere respirano uno stesso clima, sono ambedue aggressivi e potenti come richiedevano i favolosi anni Sessanta, tuttavia un certo distinguo tra i due è bene mantenerlo: l’uno infatti era di formazione e cultura americana, l’altro era europeo. Per dire: non mi pare che Warhol abbia mai pensato di stilare un “manifesto”, Manzoni ne buttò giù più di uno. L’intellettuale europeo è sempre irresistibilmente attratto dal termine “manifesto”, un appuntamento – o un richiamo della foresta – cui non può mancare. Cominciarono i preromantici dello Sturm und Drang, una sorta di movimentismo antelitteram, tra il 1765 e il 1785, che fu di per sé un manifesto. Gli animi si scaldarono poi al Sol dell’Avvenire promesso dal “Manifesto” marxiano (1848) e presero fuoco, alle soglie dei tempi nostri, sulle pagine del Figaro che riportavano il “Manifesto” futurista (1908). Vanno poi menzionati quello del gruppo Die Brücke e lo “Schiaffo al gusto del pubblico” di Majakovskij, manifesto del futurismo russo (1912). I due manifesti surrealisti, soprattutto il primo, quello del 1924, ebbero effetti duraturi in ogni campo, persino a livello antropologico. Per capire quanto largamente si diffuse la moda, o la mania: in Francia, nel 1913, ne fu pubblicato, anonimo, uno di tono satirico, il “Manifeste de l’école amorphiste”, presentato come espressione di una scuola pittorica negatrice della pittura stessa, ormai dedita al “monocromo” (di cui parlerò tra poco). Come numero, se non sbaglio, subito dopo gli italiani vengono i manifesti dei futuristi, suprematisti, ecc., russi.

Nel secondo Dopoguerra, altri manifesti sono venuti, a cascata. Gli italiani è abbastanza facile elencarli: con l’ardore della gioventù, nel 1947 lanciarono il loro “Manifesto formalista” i miei amici di “Forma 1”; non è chiaro se sia un falso o un abuso il “Manifesto” (1950) che circola come prodotto del gruppo Origine al cui centro era Burri. Lucio Fontana, precursore e maestro di Manzoni, ne lanciò almeno tre: il primo – scritto quando, fuggito dall’Europa in guerra, era nella natia Argentina – fu il

L’intellettuale europeo è sempre irresistibilmente attratto dal termine “manifesto”. Manzoni ne buttò giù più d’uno

“Manifiesto blanco” (1946). In quello stesso anno il veneziano Emilio Vedova era tra i firmatari, a Milano, del Manifesto “Oltre Guernica”: lui aveva fatto la Resistenza e nel 1942 aveva aderito al movimento antinovecentista Corrente, la tentazione del manifesto l’aveva nel sangue, da scommetterci.

Solo riduttivamente definiamo come artistici questi manifesti, che incitano, sferzano, progettano il cammino della rivoluzione, senz’altro definitiva. Bisogna aver pazienza, l’idea di rivoluzione è un aspetto della modernità: una produzione massificata che omologa tutto, cose e uomini insieme, spinge al ribaltamento, al rifiuto e al capovolgimento distruttivo. Il luddismo è la controfaccia della “spinning Jenny” – la prima macchina meccanica per produrre in serie i filati richiesti dalla nascente industria tessile – come il nichilismo alla Heidegger lo è del fordismo.

Manzoni non si sottrasse allo stimolo (o, se volete, alla presunzione) e anche lui progettò una sua rivoluzione. Che in qualche modo gli riuscì, come riuscì a Warhol e ad altri artisti di generazioni fiorite in anni di profonde innovazioni o, come amavano esprimersi, di arrovellate “sperimentazioni” a tutto campo: c’è qualcosa che accomuna Mary Quant, i Beatles e, appunto, i Warhol e Manzoni. Guardate la differenza che passa tra la visione che accomuna questi tre artisti – pur operanti in campi distanti tra loro – e quelle di un appena un po’ più vecchio Lucio Fontana, così crudele e spietato nel rigore dei suoi tagli e buchi, o di un Joseph Beuys, drammatico eversore e sciamano sociale. Beuys – come anche, almeno di riflesso, Fontana – vive in prima persona la guerra e i suoi orrori, che gli resteranno nella psiche come ossessioni. La Quant o Manzoni si proiettano invece sul futuro con l’incoscienza di chi non ha memorie devastanti, ed esprimono una prorompente gioia di vivere e inventare. Di suo, rispetto alla Quant, Manzoni aggiunse una irridente ironia. Un po’ come Palazzeschi, anche lui intonava, con le sue opere, un “… e lasciatemi divertire…”, ma dal suo divertimento sprizzò spesso un acido mordace.

 



  

Uno dei temi su cui Manzoni ha intensamente lavorato è l’uovo. Forma essenziale, perfetta; inizio primordiale di tutti gli esseri, l’uovo è bianco e il bianco è il colore neutro assoluto, pura luce (qualcosa vorrà significare anche l’uovo che pende sulla testa della Madonna nella “Pala di Brera” di Piero della Francesca). Manzoni produsse uova artificiali, materiche, ma mise in scena anche uova vere, uova sode uscite, magari, dal bollitoio di casa. Nel 1960 espose un “Uovo scultura n. 26” (si noti il numero, tipo quelli che servono a classificare le opere musicali), adagiato su un rettangolino di ovatta racchiuso in una scatoletta di legno. Reca l’impronta di un pollice inchiostrato di nero, con funzione di firma: certifica l’opera, le dà una identità un po’ come le impronte digitali che in criminologia garantiscono l’identità dell’inquisito. Il 21 luglio del 1960, il precoce artista presentò alla Galleria Azimut di Milano una performance restata famosa. L’invito, un cartoncino di color marrone chiaro, suonava funambolico: “Consumazione dell’arte dinamica del pubblico divorare l’arte”. Nel vasto sottoscala dalle pareti bianche era stato allestito un lungo tavolo non meno bianco, sul quale vennero disposte, inframezzate da fiaschi di Barbera, centocinquanta uova sode contrassegnate con l’impronta del pollice. Vennero, secondo le cronache, “letteralmente divorate” dal pubblico, “in circa settanta minuti” (nell’epoca di Papa Francesco, non fa senso ricordare che, insieme a un bel po’ degli intellettuali presenti all’evento – tra cui Nanni Balestrini e Vanni Scheiwiller – Manzoni aveva studiato alla scuola Leone XIII, retta dai gesuiti).

Mi introduce all’aspetto – diciamo così – commestibile dell’arte del geniale artista un bel volume curato da Guido Andrea Pautasso, (“Piero Manzoni. Divorare l’arte”, Electa Edizioni in collaborazione con la Fondazione Manzoni. 176 pp., 22 euro). Secondo il critico, il bianco dell’uovo richiama il “vuoto” della cultura zen, notoriamente attratta dai valori o dal senso del Nulla primigenio (e finale). E, osservo io, il bianco è il colore di ciò che, essendo puro, purificato, è anche buono, e proprio in quanto buono si contrappone al mondo reale, malmesso dall’uomo che lo inquina legandolo all’eterna ruota del dolore, del male. Non si potrebbe trovare di meglio per restituirci la fisionomia di un’epoca segnata profondamente dal tema del ritorno alle origini, della “demistificazione” come obiettivo primario di una rivoluzione che aspiri alla liberazione dalle ipocrisie della cultura e della civiltà. Pautasso mette in campo anche Barthes, il grande semiologo e saggista: “All’epoca (gli anni Sessanta) Barthes individuava nel colore una ‘intonacatura apposta successivamente sulla verità originaria’”, e attribuiva alla disciplina semiotica il compito di demistificare le cosidette “pratiche borghesi”, per “consentire – spiega Pautasso – la liberazione dell’individuo da tutte quelle connotazioni culturali, sociali e ideologiche che camuffano la realtà e riescono a omologare e a condizionare il nostro linguaggio e la nostra espressività”; è un’altra formulazione della filosofia, o della “pratica”, del degré zéro. E, ricorda ancora il critico, dal degré zéro all’arte zen caratterizzata dalla ricerca sul “vuoto”, il passo è breve. Era appena esaurita – non dimentichiamolo – la stagione culminante della Beat Generation americana, anch’essa in fuga dalla civiltà e alla ricerca della purezza primigenia, interiore, anche qui sotto le insegne dello zen. Con questa escatologia rovesciata, che ricerca il fine e i destini ultimi dell’uomo non alla conclusione del processo storico ma alle sue origini, siamo alle radici perfino dei miti

Anche lui intonava con le sue opere un “lasciatemi divertire…”, ma dal suo divertimento sprizzò spesso un acido mordace

sessantottini. Anche qui, forse, “c’est la faute à Rousseau”, quello della esaltazione del “buon selvaggio” inquinato e rovinato dalla cultura, dalla società.

L’ossessione dell’arte contemporanea per il bianco ha origini profonde. Più esattamente, l’arte contemporanea ha la fissa del monocromo, del quadro ridotto (regredito?) a una superficie piatta, tutta di un colore. Può essere il bianco, ma non sempre. Se ne rintracciano gli archetipi fin dal tardo Ottocento, nel 1882, quando a Parigi, alla prima “Mostra dell’arte incoerente”, il poeta Paul Bilhaud presentò un quadro tutto nero, dal titolo “Combattimento di negri in un tunnel”. Non cercava metafisiche profondità, voleva solo un gioco grottesco. Sempre il grottesco fa da guida alla esposizione, più o meno negli stessi anni e negli stessi ambienti, di sette quadri monocromi, opera dello scrittore Alphonse Allais, dai titoli irridenti: “Prima comunione di fanciulle anemiche nella neve”, oppure “Cardinali apoplettici che raccolgono pomodori sulle rive del Mar Rosso”. Questa vena ironico-satirica avrebbe avuto una gran fortuna, e con ben più profonde motivazioni, con Dada, i refrattari artisti rifugiatisi in Svizzera per non essere coinvolti nella tragedia bellica del 1914-’18. L’assalto alla fortezza borghese impugna qui le sue armi migliori.

Inseguendo grotteschi e rivolte arriviamo agli artisti del gruppo olandese De Stijl, a Kazimir Malevich, a Mondrian o allo scultore Brancusi, che fa divenire tridimensionale l’ossessione per il monocromo, il puro bianco del marmo isolato nello spazio, senza altro significato che il più autoreferenziale se stesso. Nal 1921 Alexander Rodchenko espose insieme tre dipinti, ciascuno un monocromo di uno dei tre colori primari, il giallo, il blu ciano e il rosso magenta; voleva rappresentare “La morte della pittura”.

Manzoni porta all’estremo parodistico e funambolico queste mitologie – o, forse, mitomanie – esibendo bianche uova, vere uova sode. Da mangiare: “L’arte – scrisse – è bio-degradabile, può, anzi deve essere consumata”. L’idea di un’arte fatta per essere “consumata” la ritroviamo anche in Warhol. E’, mi pare, una delle conseguenze della tesi di Walter Benjamin sulla perdita dell’“aura” che caratterizza l’arte della modernità. Perduta irremissibilmete la sacralità, l’opera d’arte diventa – anche in Warhol – mero oggetto, oggetto di consumo e quindi riproducibile all’infinito: così nascono i suoi “multipli”. Alla fine potrà anche essere mangiata. Siamo dentro la spirale di una logica inoppugnabile, che ancora oggi è fondamentale punto di partenza dell’estetica. Tutta l’arte è oggi sotto il segno del consumo. Moltiplicabile, spendibile e deperibile, non più interessata alla durata, e tanto meno all’eternità. Installazioni, happening, performances, bodyart, ecc., durano – senza rimpianti, anzi programmaticamente – “l’espace d’un matin”. Si consumano, o si autoconsumano, distruggendosi.

Manzoni non inventava nulla. Ma, nella sua tensione di ricerca, introdusse varianti di rilievo. Il suo bianco ha facce molteplici. Nel 1958 mette a punto i primi “Achromes” (“Incolori”). Si tratta di tele o altre superfici ricoperte di gesso grezzo o caolino, su quadrati di tessuto, feltro, fibra di cotone, peluche, altri diversi materiali. Il caolino liquido e la colla sono lasciati asciugare, l’insieme si trasforma in opera d’arte con un processo che avviene da sé, autosufficiente. Gli “Achromes” sono stati definiti come spazi “totali”, aperti “a infiniti significati”, nella possibilità di una “infinita riproduzione”. Alcuni di questi “achromes” sono panini, “rosette” (una forma di pane molto comune a Roma) autentiche o artificiali. Uova e panini di Manzoni si mangiano o invitano al mangiare.

Il libro di Pautasso (con i suoi diversi saggi) esplora a fondo il tema dell’arte “commestibile” che lui pone nel cuore dell’opera del Manzoni. L’artista considerava il cibo “non solo come ‘materia’ ma anzitutto come ‘linguaggio’. Ma non fu solo l’artista italiano a occuparsi del singolare tema. Ne trattò dottamente Roland Barthes. Nel suo famosissimo “Miti d’oggi” (1957), il semiologo inserì un saggio dedicato alla “cucina ornamentale”, prendendo posizione contro alcune tendenze della gastronomia e dell’arte culinaria del tempo, che richiedeva ed esaltava una elaboratissima “nouvelle cuisine”, piena di inventiva “barocca” fino a ritrovarsi “travestita” (cito Pautasso) con “abiti fantasiosi e ornata da decorazioni sfrenate e al limite della possibilità di realizzazione”. Invece “per il semiologo francese la cucina doveva sì avere delle idee, ma anzitutto essere ‘reale’”. In quegli anni un altro artista, il rumeno-svizzero Daniel Spoerri, elaborava le sue opere (definite, appunto, “Eat Art”) utilizzando avanzi di pasto – cibo ma anche piatti o stoviglie, posate ecc. – che incollava su supporti da appendere alla parete, come un quadro. Qualcosa del “barocco” lamentato da Barthes c’era, in queste non eccelse invenzioni, o – meglio – trovate, che avrebbero potuto benissimo essere definite “nature morte”, un genere pittorico, appunto, seicentesco. Nel 1961, Spoerri espose (e vendette) in una galleria di Copenhagen una scatoletta di cibo acquistata al supermercato sulla quale aveva stampigliato: “Attention: Work of Art”. Nel 1963 l’artista rumeno/svizzero realizzò a Parigi una performance nel corso della quale per qualche giorno lui stesso cucinava cibo, mentre famosi critici d’arte – tra i quali Pierre Restany, Jean-Clarence Lambert, John Ashberry, ecc. – fungevano da camerieri così materializzando, in forma di metafora, la loro funzione professionale di mediatori tra l’arte e chi ne fruisce. Si alternarono a Spoerri, come cuochi, Joseph Beuys, Andy Warhol, Robert Fillou, ecc.

In uno dei capitoli del suo libro, Pautasso ci offre una appetibile scorribanda nella storia degli “artisti d’avanguardia in cucina (1913-1963)”. Potremo incontrare Apollinaire che tenta di cambiare l’alimentazione in chiave artistica rendendola ‘cubista’” (…) “hommage ai gusti di un astronomo, Lalande, famoso per mangiare ragni a colazione e per rifocillarsi durante il giorno con bruchi vivi…”; oppure Marinetti che, nel suo “Manifeste de la cuisine futuriste” “metteva l’accento sulla necessità di una cucina che fosse adeguata alla vita moderna e alle ultime concezioni della scienza”: e quindi, via l’aborrita pastasciutta a favore del “brodo solare”, del “carneplastico”, del “polloFiat” o dell’“ultravirile”, ecc. Non potevano mancare tra questi sperimentatori della cucina del futuro i Dadaisti. Tristan Tzara, nel suo (ancora!) “Manifesto dada 1918”, “lasciava immaginare una possibile deriva verso altre forme di arte, tra cui la cucina e la gastronomia…”, e un gruppo di quei dissacratori, nel suo (ennesimo) manifesto, “Dada soulève tout”, polemizzava con Marinetti, col cubismo o l’espressionismo, insomma con tutte le precedenti avanguardie, colpevoli di aver proposto anche loro qualche ricetta ’artistica’”.

Fu però Francis Picabia a darci una vera ricetta dadaista. Ma che delusione! Si trattava di “piedini di vitello da friggere dopo averli disossati, tagliati a pezzetti e immersi nella pastella o impanati”, roba da ricettario di Ada Boni. Un altro dadaista, il russo Valentin Parnach, fu più originale: avrebbe offerto una “non cena”, servendo ai commensali della minestra “per poi sottrarla all’improvviso, rimettendola nella zuppiera con l’aiuto di una spugna”. Seguono, nell’elenco degli artisti dissacratori del cibo, Artur Cravan con il suo “io mangerei la mia merda”, Breton, un Dalí attratto “dai cibi e dalle pietanze che potevano trascinare in inenarrabili orge alimentari che divideva con la sua ossessione erotica, la moglie Gala”. La congiunzione di cibo ed eros è quasi ovvia, a me ricorda “La grande abbuffata”, il film di Marco Ferreri del 1973 che si conclude con l’agonia e la morte

“Piero Manzoni. Divorare l’arte” è il titolo del recente volume curato da Guido Andrea Pautasso e pubblicato da Electa

della brigata raccoltasi in un’orgia innominabile di cibo e sesso sfrenato. Pautasso prosegue elencando il situazionista Debord o Meret Oppenheim, i “surprise party” e i “bistrot” degli esistenzialisti del Dopoguerra, la “Campbell Soup” di Warhol, il Fontana gastronomo che aromatizzava certe sue ricette con l’Acqua di Colonia. Eccetera.

I cibi si consumano, si mangiano, ma poi si defecano. E Manzoni ci offre anche il momento finale del percorso delle sue opere commestibili. Il 21 maggio 1961, sigillò 90 barattoli di latta, del tipo di quelli per la carne in scatola, ai quali applicò un’etichetta, tradotta in varie lingue, con la scritta “Merda d’artista. Contenuto netto gr 30. Conservata al naturale. Prodotta e inscatolata nel maggio 1961”. Sulla parte superiore del barattolo appose un numero progressivo, da 1 a 90, insieme alla sua firma. I barattoli furono posti in vendita al prezzo corrispondente a 30 grammi di oro. Le preziose scatolette sono sparse per il mondo, molte conservate in musei di prestigio. E’ curioso che nessuna sia stata aperta per controllarne il contenuto. Forse dentro non c’è quello che promette l’etichetta. Una beffa dentro la beffa. Non saprei se la priorità della singolare invenzione della scatoletta firmata debba essere attribuita a lui o a Spoerri, di sicuro l’operazione di Manzoni aveva una più forte tensione intellettuale. Non saprei dire neanche se l’evento influenzò il Warhol che nel 1962 rendeva celebri le “Campbell’s Soup Cans” con le sue trentadue stampe (cm. 51 cm. per 41 cm.) riproducenti la lattina di minestre della ditta americana.

Quando la “Merda d’artista” venne presentata, lo scandalo fu immenso, a livello nazionale; se ricordo bene, vennero depositate isteriche interrogazioni in Parlamento. L’esilarante etichetta voleva esprimere indubbiamente – e come tale venne percepita – la fine del rispetto sociale, del buongusto e della decenza, cardini della società borghese. Già Flaubert era stato critico acido e ironico del benpensantismo ottuso, del conformismo alla Bouvard e Pécuchet. La società borghese processava, più o meno negli stessi anni, la Bovary flaubertiana e i “Fiori del male” di Baudelaire. Con questi comportamente, bollati come “filistei”, richiamava su di sé disprezzo, forse anche odio, e aizzava lo scandalo, che fu la tagliente arma della sua opposizione interna.

Il risentimento antiborghese attraversa metà Ottocento e quasi tutto il Novecento. Si espande anche in politica. Ma se da una parte l’avversario della borghesia fu il socialismo, dall’altra a scatenarsi fu il livoroso rancore delle destre più aggressive e irriducibili. Non si capirebbe il dramma di Weimar se non ci si ricordasse che il nazismo fu, ai suoi inizi, un movimento per eccellenza antiborghese. Alla borghesia, profittatrice ma anche antimilitarista, veniva rimproverata la disfatta della guerra: Grosz la rappresentò nei suoi aspetti cinici, brutali e antisociali, Ernst Von Salomon ci ha raccontato, in quel capolavoro letterario che è “I proscritti”, le rivolte antiborghesi dei militari tedeschi frustrati e disillusi, prodromo delle SA e delle SS naziste. Il fascismo originario nutriva sentimenti analoghi, anche se poi Mussolini venne identificato come l’eroe della (piccola) borghesia, delle sue paure e dei suoi risentimenti.

Il volume di Pautasso è il quarto di una serie “speciale” della collana “pesci rossi”, realizzata in collaborazione con la Fondazione Piero Manzoni. Due dei volumi curati da Francesca Pola sono stati dedicati ad aspetti diversi dell’opera dell’artista, un terzo ci presenta il diario che l’artista stese in modo discontinuo, a partire dal marzo 1954 per un arco cronologico di circa sedici mesi fino all’estate del 1955. Il diario, inizialmente assai compatto, si frantuma poi in note, appunti, annotazioni, riflessioni di contenuto esistenziale. Il giovane artista è ancora indeciso se dedicarsi totalmente alla pittura o alla scrittura. Da quelle pagine si ricavano preziose informazioni sulle sue letture (Ariosto, Hemingway, Proust etc…), l’interesse per la religione, la politica, l’esistenzialismo e l’estetica di Benedetto Croce, nonché brani sulla sua tormentata vita di artista in costante oscillazione tra pessimismo e ottimismo, serietà e ironia.

Sono trascorsi oltre cinquant’anni dall’evento della “Merda d’artista” manzoniana, un evento che oggi ci appare lontano ed è sicuramente irripetibile. Poteva, e può essere classificato come un evento “neodadaista” e “neosurrealista”, ma gli resta un marchio inconfondibile di italianità, che ritroviamo del resto anche in Fontana o in un Boetti, per dire. Per quanto si sforzino di dialogare con i linguaggi più aperti, lontani ed eversivi, le loro opere mantengono un equilibrio formale, una eleganza di fondo, una sintassi geometrica, una misura, che li indica come italiani, come eredi delle simmetrie cosmatesche, della “purezza” di un Leon Battista Alberti o della ineguagliata armonia della brunelleschiana Cappella Pazzi. Non è un caso se anche il “design” italiano degli anni Sessanta presenta le stesse inconfondibili caratteristiche, che gli hanno meritato le sale dedicategli in prestigiosi musei come il Moma o il Victoria and Albert Museum di Londra.

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