La Brexit e il diritto di cambiare idea

Paola Peduzzi

L'uscita del Regno Unito dall'Ue non è inevitabile. Lord Adonis ci dice i segreti del secondo referendum e chi è il suo leader da sogno

Quando il blairismo era l’unica cosa di cui parlare, negli anni Novanta in cui tutto pareva ed era possibile, Andrew Adonis aveva poco più di trent’anni e la passione per tutto quel che riguardava l’istruzione, la formazione, il “british dream”. Tony Blair, appena diventato premier, lo prese nella sua Policy Unit a Downing Street, e Adonis divenne uno dei “pensatori” del New Labour: nel 2001 divenne il capo di quella Unit, e nel frattempo si era conquistato il nomignolo che ancora oggi molti ricordano: “Muscles”. Se David Miliband di quel gruppo di lavoro era considerato il “brain”, il cervello, Adonis era i muscoli, il traino, quello che faceva andare avanti le cose, indefesso, determinato, sorridente. Oggi che il blairismo fa parte di una stagione che sta per essere compresa nei libri di testo dei licei, Adonis è ancora così: indefesso, determinato, sorridente. La sua causa si chiama “secondo referendum sulla Brexit” e mentre spiega al Foglio, gentile e preciso, la sua posizione non mostra mai un dubbio: “Il processo dell’uscita del Regno Unito dall’Ue si può bloccare e invertire, non siamo condannati alla Brexit”.

 

Sono molto alte le possibilità che si tenga una nuova consultazione: o si accettano i termini del negoziato o non si fa la Brexit

Il negoziato tra Bruxelles e Londra procede, la data di scadenza è il 29 marzo del 2019, ora gli sherpa sono alle prese con la seconda fase della trattativa, che riguarda i rapporti commerciali ed è, se possibile, più complessa e controversa della prima. Dettagli a parte: se si dovesse fare una foto dei negoziati – che sono fatti di istinto, intuizioni, percezioni, non soltanto di cartelline piene di fogli numerati – risulterebbe un’Unione europea che cavalca l’onda de “la Brexit-non-è-inevitabile”. Le dichiarazioni di questa settimana e ancor più il tono di Emmanuel Macron, ieri in visita nel Regno per un bilaterale con la premier inglese Theresa May, fanno intendere che c’è la speranza che i britannici invertano la rotta, e decidano di interrompere il processo della Brexit.

 

La strategia del rimpianto misto alla speranza c’è da sempre: fin dal giorno dopo il referendum del giugno del 2016 vediamo piazze e talk show pieni di persone che dicono che alla fine questo divorzio non si farà. Ora questa strategia sta prendendo una forma più esatta, ha cantori più uniti e credibili e l’Europa, cogliendo questo spirito che arriva dall’opposizione al governo May, ha fatto propria la questione: i nostri cuori sono aperti, se ci ripensate siamo qui, hanno detto Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo, e Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione. I brexiteers già gridano all’ingerenza ignominiosa: è proprio per evitare che sia l’Europa a dirci che cosa dobbiamo fare, pensare, votare che abbiamo votato la Brexit. Il Sun ha pubblicato un editoriale che fa la sintesi esatta dell’umore dei brexiteers: “A quale delle molte contraddittorie facce dell’Europa dobbiamo credere? Alla routine da uomo duro del negoziatore Michel Barnier? Allo starnuto del troll a tempo pieno Guy Verhofstadt? All’appello disperato del presidente Donald Tusk? Sono comunque tutti in ritardo. Un po’ più di generosità nel 2016 quando David Cameron cercava di negoziare con l’Ue sull’immigrazione avrebbe avuto un qualche impatto sugli elettori pro Brexit. Non ora”. In perfetta sintonia con quel senso di complotto che aleggia sul mondo brexiteers – ci stanno levando il nostro divorzio! vogliono rovesciare la volontà del popolo! – il Sun dice che Bruxelles, “in combutta con gli anti Brexit”, sta costruendo una “grande minaccia alla Brexit: insieme stanno creando un panico infondato sul futuro, che può attecchire se il governo Tory non farà qualcosa. I pro remain dicono che c’è un ‘consenso crescente’ attorno alla permanenza nel mercato unico e nell’unione doganale. Sciocchezze, c’è solo nella loro immaginazione”.

 

Andrew Adonis resta calmo anche se attorno a lui gridano tutti. Dice che “l’imperativo oggi è che l’Europa comprenda che la questione dell’uscita del Regno dall’Ue non è risolta. C’è una grande possibilità che si tenga un secondo referendum, il piano per rimanere in Europa esiste ed è possibile che il Regno Unito continui a operare all’interno delle istituzioni europee”. I contatti che ci sono stati nelle scorse settimane tra i sostenitori del remain e Michel Barnier, caponegoziatore dell’Ue, hanno già contribuito a formare questa consapevolezza, e infatti il più attento e il più falco dei brexiteers, Nigel Farage – che ha definito Adonis un “un piccolo subdolo voltagabbana” – ha detto prima che gli europei non ci capiscono proprio niente della Brexit, poi che un secondo referendum non è da escludere. Perché? Perché quel che unisce ora Farage e Adonis è la sensazione che Theresa May non riuscirà a siglare un buon accordo, non c’è verso. La definizione di “brutto accordo” è naturalmente dettata da ragioni differenti, ma l’esito è lo stesso: un secondo referendum. Ma come ci si arriva? Adonis dice che il processo è semplice, “il Parlamento ha il potere di decidere in ogni momento di tenere un referendum, in ogni momento – ribadisce – La May non ha la maggioranza in Parlamento in questo momento e prima di Natale ha perso un voto importante sulle modalità con cui si gestisce, a livello parlamentare, l’uscita dall’Ue. In questo processo è grandemente possibile che il Parlamento richieda che ci sia un referendum. Il governo e la May possono non amare questa prospettiva, ma il Parlamento ha la possibilità a maggioranza di determinarla, prima che scadano i termini del negoziato con l’Ue, il 29 marzo del 2019”. In sintesi andrebbe così, spiega Adonis: “Il governo britannico presenta in Parlamento i termini dell’accordo che ha stipulato con Bruxelles, che sia hard, soft, bello o brutto, il governo deve comunque presentarlo al Parlamento, questo è richiesto dalla legge. Durante il dibattito, il Parlamento può decidere che si vada di nuovo a una consultazione, che in questo caso sarebbe: il popolo inglese accetta i termini dell’accordo, o no. Se no, vuol dire che non si fa più la Brexit. Se il governo perde il referendum, e l’accordo negoziato viene rifiutato, accade una cosa molto semplice: il governo ritira la notifica con cui ha attivato l’articolo 50 del Trattato di Lisbona, che ha aperto la procedura di uscita”. Adonis insiste, “non c’è nulla di complicato” nel diritto di cambiare idea, e non c’è neppure nulla di illegale, “è nella legge britannica la possibilità di ritirare la notifica dell’articolo 50”.

 

E' necessario trovare leader che siano riformatori radicali. Corbyn deve cambiare la sua posizione e sostenere un nuovo referendum

Il secondo referendum non sarà uguale al primo: questo è un punto importante che i suoi araldi stanno imparando a sottolineare. Alastair Campbell, ex spin doctor di Blair e animatore del partito del “cambiamo idea”, che è una proposta dello stesso Blair, ha sottolineato che parlare di “secondo referendum” rischia di fare il gioco dei pro Brexit: “La polvere del primo referendum non si è ancora depositata – ha scritto Campbell sull’ultimo numero della rivista di cui è editor at large, The New European, dedicato alla questione – E fare della richiesta di un secondo referendum il centro di una campagna dà davvero l’impressione che si voglia ripetere il voto perché non ci è piaciuto come è andato a finire il primo”. Meglio dire che è un “fresh referendum”, una consultazione nuova, una domanda differente, in modo che non si ripetano gli errori della prima volta e non ci si riduca a ripetere uno spettacolo (spaventoso) già visto, quello in cui, scrive Campbell, “il Project Fear ha perso contro il Project Lies”, la paura ha perso contro le bugie.

 

La Brexit non è inevitabile, cambiare idea è un diritto, ma bisogna giocarsela bene. Il fronte europeista vince questa volta, sì? “Sì, questa è la mia visione”, dice Adonis. Siamo sicuri, non è che poi siamo da capo? “Sicuri non possiamo esserlo, ma io sono fiducioso per una ragione molto semplice. Theresa May non ha ottenuto la maggioranza parlamentare alle elezioni dello scorso giugno perché moltissimi giovani sotto i venticinque anni d’età sono andati a votare contro il suo governo. E se si guardano le ragioni di questo voto, non c’è tanto la volontà di votare per il Labour quanto di votare contro il governo e il negoziato che sta facendo sulla Brexit. Che è esattamente il senso del secondo referendum. Non serve che molti cambino idea, basta che i giovani vadano a votare e i numeri per bocciare il negoziato ci sono”. Quelli stessi giovani che non andarono a votare nel 2016 pensando che non fosse importante o che una cosa valesse l’altra? “Quei giovani”. Si intravvede già la possibilità di ricadere nelle stesse trappole e nelle stesse illusioni, ma Adonis è convinto che questi mesi di negoziati e di primi scricchiolii dell’economia e dell’immagine del Regno nel mondo abbiano creato una nuova, definitiva consapevolezza. La Brexit vista da vicino non è bella, lo dicono molti, e Blair aveva ragione quando diceva che l’uscita dall’Ue è come l’acquisto di una casa, non la prendi senza averla guardata, esplorata in ogni angolo.

 

I brexiteers dicono che "il consenso straordinario" sulla possibilità di ribaltare l'uscita dall'Ue è una "sciocchezza"

Ci vuole un consenso collettivo però. Adonis da tempo si interroga sulla mancanza di leadership nel suo paese: l’ossessione per l’educazione che ha da quando era a Downing Street è sempre stata finalizzata alla creazione di una coscienza nazionale informata e possibilmente brillante. La sua storia personale c’entra, da dove si viene conta sempre: suo padre era un immigrato di origine cipriota, faceva il cameriere e poi il postino; sua madre, che era inglese, se n’è andata di casa quando Andrew – il cui nome di battesimo è Andreas – aveva tre anni e non è più tornata (fa l’infermiera, rilasciò qualche anno fa un’intervista al Mail dicendo che non aveva il coraggio di contattare suo figlio, “mi odierà”). Suo padre non poteva occuparsi di lui, lavorava fino a tardi, così Adonis è andato in una “children house”, poi con borse di studio ha iniziato a studiare, fino a Oxford, dove ha presentato una tesi sull’aristocrazia britannica. Le classi sociali, gli investimenti sui più deboli, la possibilità di sognare, proprio come fanno gli americani che hanno reso il loro “sogno” un’ambizione riconosciuta a livello globale: ecco, questi sono gli interessi di Adonis, che ancora oggi vuole un leader capace di guidare riforme e riscatto sociale. La Brexit è rovinosa, secondo lui, perché interrompe il processo aspirazionale, domani staremo meglio di oggi, e risucchia tutte le energie del governo, che non si può occupare delle riforme e del “british dream”. A dicembre, quando si è dimesso da presidente della commissione nazionale per le Infrastrutture cui era stato nominato dalla May in contrasto con il governo proprio sulla Brexit, Adonis ha scritto una lettera di dimissioni stupenda e significativa in cui dice che la legge che governa l’uscita dall’Ue “è la peggiore cui abbia assistito in tutta la mia vita”, e fa un riferimento al futuro: “Se la Brexit ci sarà, riportarci in Europa sarà la missione della generazione dei nostri figli, che si stupiranno dei nostri atti di distruzione. Un esecutivo responsabile si metterebbe alla guida del popolo britannico per farlo rimanere in Europa, mentre affronta, con forza, i problemi economici e sociali che hanno contributo al voto sulla Brexit. Sfortunatamente sta facendo il contrario”. Chi potrebbe essere una guida giusta, allora? Adonis dice che un’ispirazione dovrebbe venire dall’ex premier laburista Clement Attlee, “abbiamo bisogno di un Attlee 2.0, una versione del 2020 di un governo riformatore post guerra: Attlee, dopo che Churchill vinse la guerra, contrastò la crisi dell’impoverimento e della ricostruzione, restando risolutamente internazionalista e impegnato sul fronte estero”.

 

Il processo per avere un nuovo voto "è semplice" ed è "nel potere del Parlamento inglese richiederlo", spiega Adonis

Ci vuole un governo “radicalmente riformatore in senso socialdemocratico”, dice Adonis, ci vuole ora e ci vuole forte: “La questione semmai è fornire dei leader in grado di sviluppare un progetto di questo genere”. Manca una leadership forte, anche per il partito contro la Brexit, che è da sempre sulla bocca di tutti, un’unione di riformatori, un partito trasversale di moderati, ma non è mai nato perché manca la risorsa fondamentale: una guida. Adonis non discute nemmeno della possibilità di un nuovo partito, ammira molto Emmanuel Macron, dice che ci vorrebbe una visione come la sua ma non necessariamente un partito nuovo, e sul finale della conversazione sintetizza il suo pensiero che è sempre stato poco partigiano e molto radicale. C’è all’orizzonte un Attlee, anche più piccino? La domanda è difficile, non c’è un nome nuovo e rivoluzionario che salta in mente, ma “Jeremy Corbyn è uno molto convinto della necessità di riforme sociali radicali – conclude Adonis, riferendosi al leader del Labour – Certo, dovrebbe diventare anche molto europeista, e questo è il problema. Corbyn continua a giocare con l’ambiguità e questo rallenta il processo di ribaltamento della Brexit”. Ma ci arriveremo, Adonis è indefesso, determinato, sorridente, “anche Corbyn potrà diventare un grande sostenitore del secondo referendum e così lo sarà tutto il Labour”, e allora uscire dall’Ue non sarà inevitabile, cambieremo idea, e andrà tutto bene.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi