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In che senso la riforma fiscale di Trump è una minaccia per l'Europa

Marco Leonardi*

Il pericolo latente di una lotta mondiale (e senza regole) per trattenere gli investimenti dal richiamo dell’America First

Mentre in Italia si discute di Flat Tax, gli Stati Uniti fanno una riforma fiscale da 1.500 miliardi di dollari senza mai neppure nominare la Flat Tax. Con la riforma fiscale l’Amministrazione Trump ha raggiunto il suo primo vero obbiettivo politico dopo aver fallito sull’abolizione dell’Obamacare (che però viene parzialmente ridimensionato in questa riforma fiscale) e sullo stop agli immigrati.

  

In questo articolo non intendo entrare nel merito della riforma fiscale (il mio giudizio non può che essere negativo per una norma che aumenterà le disuguaglianze introducendo un taglio dell’aliquota fiscale per i più ricchi finanziato con i tagli della spesa sociale) quanto piuttosto vorrei analizzare le sue implicazioni per i nostri rapporti con gli Stati Uniti. Ricordiamo, infatti, che si tratta pur sempre della più importante riforma fiscale dal 1986 a oggi, che avrà effetti permanenti sulla competizione internazionale per l’attrazione degli investimenti.

  

Oltre ad osservare come il tema della Flat Tax risulti superato e “out of fashion” già negli Stati Uniti, ci sono almeno due importanti implicazioni per l’Europa e per l’Italia legata all’applicazione di questa riforma fiscale. La prima implicazione riguarda gli effetti macroeconomici globali sui tassi di interesse e sui tassi di cambio che una tale riforma può avere, la seconda implicazione riguarda la localizzazione degli investimenti e dei capitali internazionali.

  

In maniera semplificata, in tre punti, la riforma prevede: il taglio permanente dell’aliquota di tassazione d’impresa dal 35 al 21 per cento e l’introduzione della deducibilità piena degli investimenti nello stesso anno di acquisto dei macchinari limitatamente ai prossimi cinque anni; il taglio dell’ultima aliquota della tassazione individuale e l’aumento della no tax area della tassazione individuale per un periodo limitato d cinque anni; le aliquota della tassazione sul reddito negli Stati Uniti sono sette (10, 12, 14, 22, 24, 35 e 37 per cento) e sette sono rimaste dopo la riforma con buona pace della Flat Tax; il passaggio da un sistema di tassazione worldwide – (paghi le tasse negli Stati Uniti quando rimpatri i capitali – degli utili delle società americane a un sistema territoriale (paghi le tasse nel paese dove produci gli utili). Il passaggio avviene in due passi: sui vecchi utili c’è una repatriation tax una tantum del 15 per cento sugli utili all’estero e da questo momento in poi si paga il 10 per cento su tutti i super normal profit (cioè i profitti superiori ad un tasso normale stabilito del 10 per cento), questo per assicurarsi che le società che spostano gli utili all’estero paghino almeno il 10 per cento di tasse.

  

Mi soffermerò rapidamente su due aspetti: l’effetto macroeconomico attraverso i tassi di interesse e i tassi di cambio sull’economia mondiale (e quindi anche su di noi) e l’effetto di competizione fiscale per l’attrazione degli investimenti internazionali.

   

Gli effetti macroeconomici globali derivano dall’impatto della riforma sull’economia reale degli Stati Uniti. In termini di impatto sull’economia reale, prevale la considerazione che, se nel medio-lungo periodo gli effetti sono incerti, nell’immediato il taglio dell’aliquota per il mondo corporate e delle tasse sui redditi individuali è destinato a produrre un effetto di stimolo sulla cui portata le opinioni sono abbastanza unanimi: il complesso delle misure adottate potrebbe tradursi in una forte ripresa degli investimenti (la deducibilità immediata dei costi di investimento avrà un effetto molto forte l’anno prossimo) e una crescita del pil superiore al 3 per cento nell’arco del prossimo biennio a fronte di un deficit previsto superiore al 5,5 per cento del pil per tutti i prossimi cinque anni. Una tale manovra espansiva in un periodo in cui l’economia americana viaggia in regime di piena occupazione (il tasso di disoccupazione è al 4 per cento) si spiega solo con il desiderio per i repubblicani di accreditarsi subito degli effetti positivi e così di vincere le elezioni di midterm di novembre. L’operazione appare così strumentale che, nonostante si tratti di una consistente riduzione delle tasse, per ora, secondo vari sondaggi, la manovra approvata dal Congresso continua a essere percepita negativamente dalla maggioranza dell’elettorato. Un tale surriscaldamento dell’economia non può che accelerare la Federal Reserve nel suo percorso di rialzo dei tassi di interesse (sono previsti 4 rialzi nel corso dell’anno, ovvero un punto percentuale). Quali sono gli effetti per l’economia mondiale? La salita del tasso di interesse è da salutare con favore in quanto potrebbe portare a condizioni più normali sui mercati obbligazionari e porre un termine a questo lunghissimo periodo di tassi bassissimi. L’apprezzamento del dollaro che ne dovrebbe conseguire (per via dell’afflusso di capitali verso i mercati Stati Uniti) favorisce le nostre esportazioni. Secondo queste previsioni degli effetti macroeconomici l’Europa potrà avvantaggiarsi dallo stimolo fiscale Stati Uniti, tuttavia, se il rialzo dei tassi di interesse fosse troppo rapido anche in Europa, per il debito pubblico italiano sarebbero dolori.

   

La potenziale minaccia per l’Europa è insita invece nella componente internazionale del piano e nel passaggio a un sistema di tassazione territoriale. Sulla necessità di abbandonare il sistema worldwide (gli Stati Uniti sono uno degli ultimi paesi ad averlo) e di tassare i super normal profit superiori ad un tasso normale stabilito del 10 per cento sono in realtà d’accordo sia i democratici sia i repubblicani. L’Amministrazione Trump segnala tuttavia un aspetto politicamente assai sensibile. Secondo alcune stime infatti, oltre il 50 per cento del deficit commerciale degli Stati Uniti – il cui taglio rappresenta come noto una priorità dell’agenda economica del presidente Trump – sarebbe in realtà generato in modo artificiale da operazioni di “transfer pricing” da parte delle aziende che trasferiscono – attraverso fittizie vendite di servizi – profitti all’estero. I meccanismi di anti-erosione della base fiscale (tassazione di super normal profits e repatriation tax) rappresentano pertanto un tassello fondamentale della strategia dell’Amministrazione per ridurre il deficit commerciale (cresciuto ulteriormente a novembre dello scorso anno di 3,2 punti percentuali). Ma questo potenzialmente vuol dire che ci sono 3.000 miliardi di dollari all’estero che in parte potrebbero rientrare negli Stati Uniti. Alcuni di essi per essere investiti negli Stati Uniti sfruttando i prossimi cinque anni di deducibilità immediata delle spese di investimento oppure per essere distribuiti come dividendi ai proprietari di azioni. E’ possibile che un trasferimento così massivo di capitali abbia un effetto negativo su alcune banche europee. Tuttavia non credo ci sia niente da temere per le banche italiane perché i depositi di tale denaro non sono di solito localizzati in Italia.

  

Un effetto più preoccupante riguarda invece le scelte di localizzazione degli investimenti produttivi. La manovra di Trump è chiaramente destinata al ritorno delle attività produttive negli Stati Uniti. Alcuni investimenti potrebbero essere indotti a tornare in America (sempre grazie alla deducibilità immediata delle spese di investimento e alla corporate tax più bassa). Ma anche alcune aziende europee potrebbero essere indotte a localizzare la sede principale negli Stati Uniti anche perché quelle che oggi avevano già delle filiali lì e che magari cercavano di evitare di pagare le tasse in America con trasferimento di beni e servizi da oggi avranno vita più difficile. Per questa ragione sarebbe opportuna (e ci si attende) una risposta dell’Europa sul livello di tassazione degli utili di impresa e sulla deducibilità delle spese di investimento.

  

Esiste inoltre il tema della compatibilità del nuovo regime americano agli standard dell’Organizzazione mondiale del commercio. Poiché si prevede un sussidio (aliquota del 13,125 invece del 21 per cento) direttamente legato al reddito dalle esportazioni, potenzialmente esso è incompatibile con le disposizioni internazionali in materia di sussidi vincolati alle esportazioni. Come già avvenuto in passato, l’Unione europea potrebbe impugnare tali disposizioni ma la decisione finale prenderà molto tempo. Invece una convergenza delle politiche tra Ue e Usa è oggi possibile sul tema della web tax. Oggi infatti – diversamente da prima – l’Amministrazione americana è politicamente interessata a tassare le tech companies.

  

In conclusione il pericolo maggiore è insito nel messaggio politico che potrebbe prevalere nei prossimi mesi: America First non deve tradursi in una competizione senza regole per gli investimenti attraverso le riduzioni di aliquota. Sulla politica commerciale, l’attenzione si focalizza sulle decisioni che l’Amministrazione potrebbe prendere nella prima parte dell’anno relativamente al Nafta e alle azioni di “trade remedies” avviate in questi mesi (indagini unilaterali su acciaio, alluminio, contro la Cina su pannelli solari). L’approccio protezionista del presidente Trump potrebbe tradursi in decisioni dagli effetti negativi sull’economia americana e sulla crescita mondiale, in particolare laddove alcune di queste decisioni dovessero innescare la reazione degli altri partner commerciali.

  

*Consigliere economico della presidenza del Consiglio dei ministri e professore di Economia all’Università Statale di Milano

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