Manifestazione indipendentista

Come votano gli imprenditori catalani? Hanno già bocciato l'indipendenza da un pezzo

Silvia Ragusa

Più di tremila aziende fuggite, manager arrabbiati: “Non ce ne siamo andati, ci hanno cacciato”. Cala il pil, crolla il turismo

Madrid. E’ l’effetto Montreal. Nel 1980 il referendum separatista della provincia canadese segnò un ante e un post per la città: circa 700 aziende migrarono e non tornarono indietro, anche se alla fine il Quebec non raggiunse mai l’indipendenza. A distanza di quasi quarant’anni il caso Quebec torna in auge, rievocato da molti catalani, per lo più imprenditori. Dal primo ottobre scorso al 18 dicembre, secondo il Colegio de Registradores di Madrid, esattamente 3.073 aziende hanno lasciato Barcellona per trasferirsi altrove. Alcuni partiti locali promettono incentivi per il loro rientro ma compagnie importanti, come La Caixa o Banco Sabadell, hanno già fatto capire che non sono interessate: “Che senso avrebbe?”, si chiedono. Sabadell, tra le prime entità finanziarie a emigrare, ha preso la decisione “per proteggere gli interessi di clienti, impiegati e azionisti”, come dice al Foglio uno dei suoi rappresentanti. Nessuno dimentica il rosso della Borsa di Madrid. A ottobre l’Ibex35 crollava a picco e proprio Sabadell, insieme a CaixaBank, registrava perdite molto pesanti. La sfida indipendentista stava condizionando le previsioni di crescita economiche del prossimo anno. Con l’uscita dei due colossi finanziari, emblema della regione, seguiti pochi giorni dopo anche da Gas Natural, tutti gli altri manager catalani hanno subìto uno choc e sono stati costretti, anche loro, a preparare le valigie. “Uno dei nostri principali clienti negli Stati Uniti teme che l’instabilità politica possa avere ripercussioni sui nostri servizi”, ci spiega un produttore che chiede di non essere identificato. Le sue preoccupazioni non sono le uniche. Il 91 per cento degli imprenditori si dice “molto preoccupato” per la situazione politica mentre il 56 dichiara come il proprio fatturato sia nettamente diminuito.

 

Lo spiega Josep Bou, presidente della piattaforma Empresaris de Catalunya, formata da circa 400 aziende. Bou parla perfino di cifre peggiori di quelle ufficiali. “Secondo i nostri dati sono oltre 5 mila le società che hanno lasciato la regione, da quando è cominciato il ‘procés’”, dice. “Il problema è che molti imprenditori, soprattutto se a capo di piccole aziende famigliari, hanno paura di dirlo pubblicamente”. A questo si aggiunga “la paralisi totale degli investimenti stranieri”, il crollo del 30 per cento del business dei ristoratori e di un 25 per cento degli albergatori – che lamentano di avere un numero di prenotazioni più che dimezzate rispetto allo scorso anno. Poi c’è un calo del 50 per cento delle compravendite di immobili così come una diminuzione del pil, previsto per quest’anno di 0,3 punti. Se l’instabilità dovesse restare tale, il calo potrebbe perfino sfiorare il 2,5 per cento nel prossimo biennio, l’equivalente di qualcosa come 30 miliardi di euro. Se novembre poi è un mese difficile, quest’anno lo è stato di più: per la Catalogna il peggiore dal 2009, secondo quanto denuncia Empresaris de Catalunya.

 

La Banca di Spagna ha tagliato di un decimo le sue previsioni di crescita economica per il 2018 e il 2019, rispettivamente al 2,4 e al 2,1 per cento, come conseguenza dell’aumento d’incertezza legata alla situazione politica, che avrà un impatto negativo sul consumo privato e sugli investimenti. Ma c’è di più: se il programma degli indipendentisti dovesse andare avanti, il 42 per cento degli imprenditori trasferirebbe “in toto o parzialmente” la propria azienda fuori Barcellona, secondo il report Refem Empresa, Refem Catalunya dell’Esade business school di Madrid. “Gli indicatori sono così negativi che realmente la sensazione è che non ci siano più vantaggi” a rimanere, conclude Josep Bou. “Con queste elezioni ci stiamo giocando molto, per non dire tutto”.

 

Il quadro economico dunque è preoccupante. E tanto ricorda appunto quel che accadde allora in Quebec, come spiega Félix Revuelta, presidente e fondatore di Naturhouse, la nota azienda, specializzata nella vendita di prodotti dietetici, nata in Spagna nel 1973. “La similitudine c’è. E sappiamo tutti come finì la storia”, dice. “Sono preoccupato per il divario sociale tra la Catalogna e il resto della Spagna. Viviamo un’instabilità giuridica senza precedenti”. La società quotata in Borsa, che ha spostato la propria sede da Barcellona a Madrid perfino prima del 1° ottobre, lo ha fatto per “ragioni strategiche ma anche per una questione di buon senso”, visto che “il governo catalano non pensa ai cittadini e non fa politiche economiche a lungo termine. Che fine farà il nostro tessuto imprenditoriale? Tra un mercato di 550 milioni di europei o uno di sette milioni e mezzo di catalani, la scelta da fare credo sia evidente”, dice Revuelta, indignato. “In generale un’azienda mira ad allargare il proprio mercato, tenta di accogliere la sfida della globalizzazione e portare i propri prodotti anche all’estero. Qui invece stiamo facendo esattamente il contrario, ridurre il business delle imprese al nostro orticello”, continua il magnate del gruppo, che attualmente è presente in 26 paesi.

 

“Sono arrabbiato, come tanti altri amici e imprenditori. Abbiamo dovuto sobbarcarci i costi di un trasferimento che non volevamo, siamo stati costretti dalle circostanze. In sostanza ci hanno cacciato. Per cinquant’anni ho vissuto e lavorato in Catalogna, in una comunità che considero anche casa mia. Non è piacevole lasciare gli amici, la famiglia, il proprio quartiere”, aggiunge Revuelta, che conferma la sua partecipazione al voto di giovedì. “Bisogna mettere fine al governo nazionalista, che non ha mai lavorato per creare occupazione né si è mai interessato d’economia. La colpa d’altronde è di noi cittadini, che votiamo male o non votiamo. E adesso rischiamo di pagarne le conseguenze”.

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