Bashar el Assad e Vladimir Putin a Mosca (foto kremlin.ru)

Assad abbraccia Putin perché ha vinto la Prima guerra. Ne arriva un'altra?

Daniele Raineri

A Sochi i presidenti di Russia, Iran e Turchia decidono il futuro della Siria. Americani tenuti fuori. Israeliani sul piede di guerra

Roma. Tre giorni dopo l’inizio dei bombardamenti della Russia in Siria, nell’ottobre 2015, l’allora presidente americano, Barack Obama, disse in una conferenza stampa alla Casa Bianca che “ogni tentativo iraniano o russo di salvare Assad e di pacificare la popolazione è destinato a finire in un quagmire e non funzionerà”. Quagmire è la parola diventata famosa durante i primi anni della guerra americana in Iraq, quando una soluzione rapida al conflitto cominciò a diventare un doloroso miraggio, non c’era alcun progresso e le truppe erano insabbiate in una situazione senza sbocchi: un quagmire, appunto. Il tentativo iraniano e russo invece ha funzionato. Ieri il Cremlino ha fatto circolare la notizia e le foto di un incontro di lunedì pomeriggio fra il presidente russo Vladimir Putin e quello siriano Bashar el Assad, avvenuto in segreto per ragioni di sicurezza. E’ soltanto la seconda volta in sette anni di guerra che Assad lascia la Siria, la prima fu nell’ottobre 2015 e anche quella volta si trattò di una visita riservata a Mosca per incontrare Putin. Questa volta il bilaterale è stato a Sochi, sulla costa del mar Nero, e si è aperto con un abbraccio che di fatto sancisce la fine della guerra in Siria. Nessun contendente sul terreno ha adesso la forza di minacciare il potere territoriale e militare del complesso Assad-russi-iraniani e il presidente siriano, che negli anni scorsi rischiava di essere travolto assieme al suo establishment molto chiuso e diffidente, oggi ha la vittoria finale garantita. Lo Stato islamico devastato da tre anni di bombardamenti americani – e molto meno dagli alleati di Assad, più concentrati su altri fronti – ha abbandonato una dopo l’altra le città che controllava e ora sta per essere cacciato anche dagli ultimi chilometri che controlla, a est, vicino al confine iracheno. I gruppi dell’opposizione armata confinati nella “riserva indiana” di Idlib a nord-ovest, possono al massimo provare a difendersi, non hanno alcuna speranza di attaccare; la fazione dominante fra loro inoltre è un gruppo terrorista ostile allo Stato islamico ma legato ad al Qaida (a dispetto dei dinieghi) e questa scelta suicida bloccherà ogni idea di aiuto dall’esterno fino alla completa estinzione. A nord-est ci sono i curdi, che sognano più autonomia ma non vogliono finire come i cugini iracheni, che hanno provato a parlare d’indipendenza e sono finiti schiacciati. Un altro paio di enclave ribelli fuori dal controllo del governo, una vicino a Damasco e l’altra al confine sud, resistono agli assalti – ma dal punto di vista militare l’esito è scontato, soprattutto se si ragiona sul lungo termine, anni e non mesi. Assad, protetto da un doppio cerchio di difesa fatto da milizie filoiraniane a terra e dai jet russi in cielo, ha superato la crisi. La Russia si occupa anche di fare ostruzionismo alle Nazioni Unite, mette il veto contro le indagini per crimini di guerra e venerdì scorso ha fatto sciogliere la commissione che indagava sui massacri con le armi chimiche compiuti dagli assadisti: il presidente siriano ha ogni ragione di abbracciare Putin.

 

Ma se Sochi è il giro della vittoria di Assad nella prima guerra siriana, non è da escludere che ce ne sia presto una seconda. Oltre alle tensioni con i curdi, c’è Israele che ogni giorno ricorda che in questo momento le condizioni sul terreno in Siria – quindi la presenza in massa di militari iraniani e di milizie Hezbollah – sono una minaccia esistenziale e quindi equivalgono a una dichiarazione di guerra. “C’è ancora chi non vuole capire – ha detto la settimana scorsa il ministro della Difesa israeliana, Avigdor Lieberman, in visita sul Golan – ma è così”. Per vincere la guerra civile con l’aiuto iraniano, Assad ha creato un motivo potenziale di conflitto con Israele e con gli altri paesi dell’area che non sopportano gli iraniani, su tutti quelli del Golfo.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)