Un manifestante palestinese a Ramallah (foto LaPresse)

Scontri in Palestina per la decisione di Trump. Netanyahu temporeggia

Redazione

Un morto a Gaza durante le proteste che hanno seguito la virata degli Stati Uniti. Il governo lavora per gestire l'instabilità

Milano. Le manifestazioni, il dissenso, la protesta attesi dopo l’annuncio dell’Amministrazione Trump di spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme, riconoscendo ufficialmente la città contesa come capitale d’Israele, sono arrivati. Nel secondo giorno della “rabbia palestinese”, migliaia di persone sono scese in strada a Gerusalemme est dopo la preghiera islamica del venerdì alla moschea di al Aqsa, in Cisgiordania – nelle città di Ramallah, Betlemme, Hebron e altrove –, e a Gaza, lungo la barriera che separa Israele dalla Striscia controllata da Hamas. Un manifestante è stato ucciso dal fuoco dell’esercito israeliano proprio a Gaza, a Khan Younis, nel sud della Striscia, mentre sono oltre duecento i feriti negli scontri tra soldati e forze dell’ordine israeliane e manifestanti palestinesi. Le proteste sulla controversa mossa del presidente americano Donald Trump hanno attraversato il mondo arabo, da Tunisi all’Iraq, passando per lo Yemen in guerra, e quello musulmano, con cortei fino in Indonesia e Malaysia. Domani al Cairo si riunirà d’emergenza la Lega araba, e la settimana prossima il presidente russo Vladimir Putin incontrerà sulla questione il turco Recep Tayyip Erdoğan, che riunirà anche i leader dei paesi islamici a Istanbul. Il coordinatore delle Nazioni Unite per il processo di pace in Medio Oriente, Nikolay Mladenov, ha detto al Consiglio di Sicurezza che esiste il “rischio” di un aumento delle violenze.

 

 

L’establishment militare israeliano dal giorno dell’annuncio di Trump rafforza l’apparato di sicurezza: non sono stati richiamati come nei momenti di massima emergenza i riservisti, ma interi battaglioni sono stati inviati nei Territori palestinesi, lungo il confine con Gaza, assieme a unità di intelligence, mentre decine di agenti di polizia sono stati dispiegati nelle principali città del paese. “Il sangue che sicuramente sarà versato – scriveva tre giorni fa il quotidiano liberal israeliano Haaretz – non sarà sulle mani di Trump ma su quelle di Netanyahu”. La decisione presa dagli Stati Uniti fa temere una nuova stagione di violenze nella regione e mette il primo ministro Benjamin Netanyahu nella difficile situazione di dover gestire un possibile rafforzarsi dell’instabilità. A livello pubblico, le reazioni dei membri del governo israeliano in seguito all’annuncio americano non sono state particolarmente rumorose. Il premier avrebbe istruito i propri ministri a non parlare della questione del trasferimento dell’ambasciata americana proprio in anticipazione delle violenze, per evitare che le istituzioni israeliane potessero essere accusate di aver in qualche modo fomentato un clima di instabilità: la decisione, ricordano gli analisti, non è infatti attribuibile a Netanyahu, ma al presidente Trump.

 

 

Sebbene in una posizione difficile davanti alle crescenti tensioni, il premier è politicamente rafforzato dall’annuncio degli Stati Uniti. Come ricorda Tal Schneider, corrispondente diplomatico del quotidiano finanziario israeliano Globes, la dichiarazione di Trump ha cambiato l’argomento della discussione pubblica in Israele, nelle ultime settimane incentrata sulle inchieste sulla presunta corruzione di Netanyahu. Inoltre, la nuova direzione presa dagli Stati Uniti “enfatizza le eccellenti relazioni, le connessioni personali, la comunicazione che il premier ha sempre detto di avere con Trump, e che gli altri leader politici israeliani non hanno”. La giornalista, che da molto tempo segue la politica interna, dice di non ricordare di aver assistito negli ultimi anni a un periodo di tale consenso nazionale. La dichiarazione dell’Amministrazione americana ha infiammato la regione e diviso la comunità internazionale, ma in Israele è stata salutata da tutti i partiti come un passo epocale, e accolta con entusiasmo dai principali rivali di Netanyahu, il laburista Avi Gabbay e il centrista Yair Lapid.

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