Pyongyang, festa per il lancio di un razzo nel 2012. Foto AP/Ng Han Guan

L'antidoto

Giulia Pompili

L’omicidio del fratellastro Kim è la grande metafora di questa escalation di tensione in Corea

Roma. Dodicimila soldati, duecentotrenta aerei da guerra. Sono i numeri delle più “imponenti” esercitazioni militari mai effettuate intorno alla penisola coreana da America e Corea del sud, uno show di forza che è iniziato ieri e durerà fino a venerdì prossimo. Ed è da osservare con attenzione questo cambio di passo dell’Alleanza, che ha scelto la linea dura dopo le ultime provocazioni della Corea del nord e ora cerca di mostrare i muscoli. Secondo la Cnn, queste esercitazioni culmineranno con la prova generale di un “attacco operativo” a una base lanciamissili nordcoreana e ad alcuni impianti nucleari – un modo per far vedere a Kim Jong-un che Washington e Seul sono preparate anche per “strike chirurgici”, di cui da tempo si parla. Il fatto è che le esercitazioni militari sono, da sempre, motivo di collera da parte della leadership di Pyongyang, e la loro cessazione è una delle condizioni per tornare al tavolo dei negoziati. Pure la Russia, qualche giorno fa, ha fatto sapere di nuovo di essere contraria a certi giochi di guerra. La situazione è sempre più tesa in quell’area di mondo: il rischio di un incidente “non è mai stato così alto”, ha detto un funzionario del Comitato per la Riunificazione pacifica della Corea del nord, che poi ha minacciato una “tremenda vendetta”. Ma è anche in America che il dibattito pubblico è arrivato a un punto di non ritorno: il senatore Lindsey Graham, repubblicano, da sempre sostenitore dell’intervento armato contro Pyongyang, ha detto ieri alla Cbs che il Pentagono dovrebbe iniziare a “rimpatriare” i civili americani attualmente dislocati in Corea del sud. “Ci stiamo avvicinando a un conflitto”, ha detto il senatore. Il presidente americano Donald Trump conta ancora sull’aiuto di Pechino, ma molti analisti sono convinti che per disinnescare l’escalation non basteranno sanzioni economiche.

  

Mentre gli aerei da guerra sorvolano il Pacifico, e le sirene antimissile suonano per la prima volta dopo trent’anni alle Hawaii, in Malaysia, un paese un tempo considerato tra i più vicini alla Corea del nord, si sta svolgendo il processo contro le uniche due imputate per l’uccisione di Kim Jong-nam, fratellastro di Kim Jong-un, ucciso all’aeroporto di Kuala Lumpur il 13 febbraio scorso. E quel processo sembra oggi la grande rappresentazione della Corea del nord, un luogo dove l’intelligence ha fallito, dove niente è come sembra e la manipolazione, la brutalità e la lotta per il potere resta l’unico movente possibile.

   

Prima di tutto: da quando è iniziato il processo, la Malaysia ha tentato in tutti i modi di lasciare che le “questioni di stato” intralciassero il corso della giustizia. Sul banco degli imputati ci sono soltanto l’indonesiana Siti Aisyah e la vietnamita Doan Thi Huong, le due ragazze che sarebbero state raggirate da un gruppo di persone credendo di partecipare a un reality show, e avrebbero usato il gas nervino VX contro Kim Jong-nam senza sapere cosa stavano facendo. Come notato da Reuters, i giudici malesiani continuano a riferirsi alla vittima come a Kim Chol, lo pseudonimo del fratellastro di Kim, e nessuno ha mai più parlato dei quattro (forse) nordcoreani ricercati dall’Interpol che avrebbero avvicinato le ragazze prima dell’omicidio, poi spariti. Il processo dunque non è un processo su una cospirazione, ma un processo per omicidio.

  

L’altro giorno però un dettaglio ha fatto il giro del mondo: oltre a numerose banconote straniere, tra cui 124 mila dollari in contanti, nello zainetto di Kim Jong-nam sono state ritrovate 12 fiale di atropina, l’agente che generalmente viene utilizzato in caso di avvelenamento da gas nervino. L’antidoto. Non funziona sempre, e deve essere assunta il prima possibile, intramuscolo – per questo ai soldati, per esempio, viene fornita con la classica siringa a forma di penna, per l’autosomministrazione. Come ha scritto su Asia Times Stephen Bryen, esperto di sicurezza e spionaggio, è facile pensare che Kim Jong-nam fosse consapevole di essere in pericolo di vita – molte fonti parlano addirittura di una taglia sulla sua testa che in Corea del nord pende da parecchio tempo. Ma se in Malaysia portava con sé soltanto le fiale di atropina, e non le siringhe, forse lì si sentiva al sicuro. Gli agenti nordcoreani lo hanno trovato e ucciso lo stesso, anche se la verità processuale darà un’altra versione della storia.

  

Il punto, con la Corea del nord, è proprio questo: abbiamo continuato a sottovalutarla, ma abbiamo comunque messo nello zainetto l’antidoto. Adesso dovremmo somministrarlo, prima che sia tardi.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.