Re Salman con il figlio Mohammed

Dolori d'Arabia

Stefano Cingolani
La monarchia è in crisi (troppi pretendenti al trono), l’economia pure. E ora i sauditi temono l’Iran e un’America affrancata dal loro petrolio. Il paese non produce quasi nulla, vive consumando giorno dopo giorno i proventi del greggio. Spese pubbliche fuori controllo.

Nigel Sillitoe ha fatto un po’ di conti. Si tratta di stime, perché i veri dati sono riservatissimi. Ma Sillitoe sa il fatto suo: capo dei servizi finanziari di Insight Discovery, una delle principali agenzie di intelligence economica, passa la vita a spiare i movimenti di capitale sul mercato. Secondo i suoi calcoli nella prima metà dell’anno hanno ripreso la via di Riad tra 50 e 70 miliardi di dollari, richiamati dalla Sama, acronimo per Saudi Arabian Monetary Agency, la Banca centrale della monarchia saudita. La notizia l’ha rivelata lunedì scorso il Financial Times, da tempo però tutti gli 007 della finanza globale avevano segnalato il fenomeno.

 

La causa immediata è la caduta del prezzo del petrolio sceso nell’ultimo anno da 100 a 40 dollari il barile. In realtà, costa poco estrarre dalle sabbie arabe quel greggio liquido e trasparente come se fosse raffinato: la famiglia reale e le compagnie possono incassare ricchi profitti anche se il prezzo continua a scendere fin sotto i 20 dollari il barile. Ma il fatto è che il paese non produce quasi nulla (il petrolio genera il 40 per cento del prodotto lordo e il 90 per cento delle entrate estere) quindi vive consumando giorno dopo giorno i proventi della manna nera. Secondo la Citibank, in sei mesi sono state bruciate riserve per 82 miliardi di dollari, pari al 10 per cento del totale. Le spese pubbliche sono fuori controllo. Il deficit del bilancio pubblico supera un quinto del prodotto lordo, un record assoluto. Di questo passo, il risparmio nazionale verrà spazzato via in tre anni.

 

Gli ultimi discendenti di Abdulaziz Ibn Saud, insomma, stanno dissipando l’immenso bottino conquistato dal possente guerriero che reinventò un paese grazie all’impero britannico, al colonnello Lawrence e soprattutto a Franklin Delano Roosevelt. Quel patto tra il presidente degli Stati Uniti e l’emiro del deserto, stipulato nel canale di Suez nel febbraio 1945, poco dopo la conferenza di Jalta, ha cambiato il centro di gravità del mondo post bellico. Se la Seconda guerra mondiale è stata vinta grazie al petrolio del Texas e dei Caraibi, il greggio arabo ha avuto un ruolo fondamentale nella Guerra fredda. Oggi, il pendolo si sposta di nuovo verso l’America, così la monarchia saudita rischia la bancarotta finanziaria e l’emarginazione geopolitica.

 

In questo scenario finanziario, s’innesta una frenetica lotta dinastica tra gli eredi. Secondo alcune voci, si starebbe preparando una sorta di golpe bianco per portare al potere la nuova generazione la quale, come accade un po’ ovunque in questo secondo decennio del Secondo millennio, non è affatto più aperta, illuminata, progressista della generazione precedente. E nel mondo musulmano la nostalgia per le radici, l’ansia di identità, la difesa del proprio territorio non solo fisico, ma spirituale, la protesta contro il McWorld, quello della globalizzazione, tutta la confusa rivolta contro la modernità della quale già parlava Isaiah Berlin un quarto di secolo fa, prende la via del jihad.

 

Lo scontro durissimo è cominciato a gennaio, attorno al capezzale di Abdullah, il sesto re, salito al trono dieci anni fa. La successione finora è avvenuta sempre tra i numerosissimi figli: 45 riconosciuti, dei quali 36 sopravvissuti, partoriti da 22 mogli. Normalmente le scelte vengono fatte per consenso rispettando la linea dinastica e l’anzianità, con il voto del consiglio della corona. Questa volta, però, è avvenuta una rottura. Il trono è andato al fratellastro Salman, ottantenne, 25esimo figlio di Ibn Saud, indicato come successore nel 2012 dopo la morte del fratello Nayef. Il nuovo sovrano ha nominato principe della corona (quindi erede al trono) il nipote Mohammed, figlio secondogenito di Nayef, 56 anni, che ha studiato in America frequentando anche corsi al Fbi. Tutti a Riad sono convinti che sia una soluzione ponte per scaldare la sedia al vero erede, Mohammed figlio di Salman, appena trentenne, insediato come vice principe della corona e ministro della Difesa, nonostante la sua scarsa esperienza.

 

Il colpo di mano ha tagliato fuori una quantità di parenti e pretendenti a favore dei Sudairi, cioè i figli di Hassa bint Ahmed al Sudairi, la moglie favorita di Abdulaziz, morta nel 1969. Salman è più anziano, ma il più onesto, preparato, popolare e anche il più sano dei sette fratelli viene da tutti ritenuto il 73enne Ahmed. Per trent’anni vice ministro degli Interni, nel 2012 venne nominato ministro, per essere esautorato due anni dopo. Il ministero degli Interni è ormai la posizione chiave nella scala del potere, perché deve garantire il precario equilibrio tra la componente wahabita e quella tribale sulle quali si fonda il regime, quindi è un passaggio obbligato prima di salire al trono.

 

L’ultimo complotto avviene proprio nei giorni in cui il vecchio re Abdullah sta per volare nei giardini di Allah: il capo della corte Khaled al-Tuwaijri manovra per insediare il principe Muqrin, 35esimo e più giovane figlio di Ibn Saud, salvando la sua influente posizione. Ma il piano dura poco, Salman esce vincitore e ad aprile estromette Muqrin a favore di Nayef, in attesa che sia pronto il proprio figlio, descritto non solo dai suoi nemici, ma da autorevoli arabologi occidentali, come spietato e alquanto rozzo, amante del potere e lontano dal popolo. L’attesa non dovrebbe essere molto lunga visto il precario stato di salute dell’ottantenne sovrano.

 

Intrighi di palazzo da tramonto dell’impero ottomano, insomma, spia dei mali che scuotono il regno dei Saud tanto che il catastrofico incidente avvenuto durante il pellegrinaggio annuale alla Mecca assume un valore simbolico. Venerdì 11 settembre davanti alla grande moschea una grande gru crolla sopra la folla accorsa per il rituale hajj. Una strage: muoiono 107 persone e 238 rimangono ferite. Responsabile è la ditta che sta lavorando ad ampliare la moschea, una delle imprese più grandi del paese: il Saudi Binladin Group, fondato 80 anni fa da Mohammed bin Anwad bin Laden, padre di Osama, suo 17esimo figlio, e oggi guidata da Bakr, fratello del fondatore di al Qaida. Re Salman, furibondo, ordina di sospendere tutti i contratti con il gruppo Binladin anche se è sempre stato il favorito della corona.

 

Ma quel venerdì è destinato a lasciare altre profonde ferite nel mondo dei sottomessi, lacerato più che mai da tensioni religiose, politiche, economiche e militari. La guida suprema dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei, ha chiesto imperiosamente che la monarchia saudita faccia ammenda di fronte a tutti i musulmani. Sottinteso è che gli eredi di Ibn Saud non sono degni di custodire i luoghi santi. La contesa tra i due paesi, che approfondisce il solco tra sunniti e sciiti, si arricchisce insomma di un altro macabro vessillo: le vittime della moschea.

 

Una delle prime mosse del nuovo monarca saudita è stata sul fronte yemenita. Nella notte tra il 25 e il 26 marzo, gli aerei di Riad hanno bombardato le postazioni dei ribelli sciiti Houthi, sostenuti da Teheran, che avevano conquistato la capitale Sana’a e altre città nell’ovest del paese. La sanguinosa guerra civile scoppiata nell’inverno del 2012 subito dopo la caduta di Ali Abdullah Saleh, il dittatore che per trent’anni aveva gestito il potere, s’è trasformata nel confronto militare tra le due potenze del Golfo Persico. Nonostante un’aviazione agguerrita, tutta made in Usa, appoggiata più o meno apertamente da combattenti sul terreno, le sorti belliche non arridono ai sauditi.

 

A complicare il tutto c’è la forte presenza di al Qaida che ha fatto dello Yemen una delle sue basi principali fuori dal Pakistan e dall’Afghanistan, e l’irruzione dei miliziani del Califfato. I sauditi sono tentati di utilizzarli contro gli Houthi, anzi l’intelligence occidentale sostiene che lo stiano già facendo, anche se gli Stati Uniti vogliono che gli aerei di Riad attacchino i campi dei guerriglieri islamisti. La prova di forza in quel paese poverissimo, uno stato fallito, covo del terrorismo e porta del mar Rosso attraverso lo stretto di Aden, è diventato un test fondamentale anche per la traballante corona di re Salman.

 

[**Video_box_2**]La doppiezza diplomatica e militare nei confronti degli islamisti sunniti ha rinfocolato negli Stati Uniti i vecchi sospetti. E’ tornata a galla la polemica sulle pagine ancora top secret del rapporto sull’11 settembre. Che cosa contiene di così sconvolgente? Le colpe della Cia, le distrazioni dell’Fbi? No, questo è già stato ampiamente sviscerato e denunciato dalla commissione. Quelle 28 pagine su 838 contengono, secondo la lettera di 46 senatori democratici e repubblicani, la prova che le testa del serpente è in Arabia, s’annida nei servizi segreti di Riyad manovrati dalla grande e infida tribù dei Saud. Nelle ultime settimane gli attacchi polemici si sono fatti sempre più frequenti e vengono da fronti opposti. Donald Trump ha chiesto di ritirare il sostegno americano all’Arabia Saudita. “L’unico motivo del nostro appoggio era il petrolio”, ha detto dagli schermi della Nbc. “Adesso di questo petrolio possiamo tranquillamente fare a meno. Noi li difendiamo, mandiamo le nostre navi e i nostri aerei – ha rilanciato il magnate che aspira alla Casa Bianca – e che cosa abbiamo ottenuto? Un bel niente”. Una posizione molto popolare anche nell’America liberal. Thomas Friedman lo ha scritto chiaramente sul New York Times ricordando che 15 dei 19 terroristi dell’11 settembre venivano dall’Arabia Saudita: “Niente è stato più corrosivo per la stabilità e la modernizzazione del mondo islamico dei miliardi e miliardi di dollari che i sauditi hanno investito dagli anni 70 per spazzar via il pluralismo dell’islam e imporre al suo posto il marchio Wahabita salafita dell’islam puritanico, anti femminile, anti occidentale, anti pluralistico”. Non solo, deve essere chiaro a tutti, a cominciare dall’establishment americano, che “i gruppi jihadisti sunniti, Isis, al Qaida, al Nusra, sono la filiazione ideologica del wahabismo innestato dai sauditi nelle moschee e nelle madrasse dal Marocco al Pakistan all’Indonesia”.

 

Allora, sono meglio gli ayatollah? Friedman, anche se appoggia l’accordo voluto da Obama, ritiene che l’ambizione nucleare dell’Iran sia una minaccia da combattere. Tuttavia, “non viene da lì l’unica fonte di instabilità della regione, l’unico pericolo per la pace e per l’occidente”. Gli Stati Uniti sono in grado di combattere su due fronti? Israele sostiene di no e ha scelto tra i mali quello che ritiene il peggiore, cioè l’Iran. I sauditi a loro volta sfruttano la spaccatura tra Netanyahu e Obama. Re Salman, che ha impresso una svolta ancor più conservatrice emanando tra l’altro nuovi decreti contro chi viene tentato dai costumi occidentali assimilati all’ateismo, all’interno del suo paesenon può vantare come un successo la nuova amicizia forzata con lo “stato ebraico”. Altra prova della confusione strategica nella quale si trova il regime saudita, figlia della inattesa debolezza dei signori del petrolio.

 

Nelle ultime settimane è circolata una misteriosa lettera firmata “un discendente di re Abdulaziz della casa di Saud”; l’anonimo principe chiede una seduta straordinaria del supremo consiglio di famiglia allo scopo di esaminare gli errori di re Salman e del suo giovane figlio, ai quali vengono imputati gli insuccessi nello Yemen, le difficoltà con l’alleato americano, l’incapacità di gestire la crisi petrolifera, e naturalmente le manovre per tagliar fuori una parte della famiglia. La fonte della protesta verrebbe dai numerosi membri che da tempo si sono sentiti esautorati dallo strapotere dei figli di Sudairi. Altri, invece, vedono la manina del principe Ahmed che non manda giù di essere scavalcato dall’acerbo nipote. Secondo un dissidente saudita intervistato dal Middle East Eye, il pugnace portale sul medio oriente che ha rivelato la notizia, si tratta di una mossa per far cadere subito Salman e rimpiazzarlo con Ahmed. La lettera, del resto, nelle righe conclusive non lascia dubbi sulle reali intenzioni dell’autore: “Non saremo in grado di bloccare l’emorragia di denaro, la debolezza politica e i rischi militari se non siamo in grado di cambiare i metodi decisionali anche se questo implica di cambiare lo stesso re”.

 

La crisi dinastica e quella economica acuiscono la crisi sociale di un paese diventato ormai popoloso: nel 1970, quando comincia la vera bonanza poetrolifera c’erano appena 6 milioni di abitanti, oggi sono 29 milioni. Metà della forza lavoro è composta da immigrati: 9 milioni di filippini, indiani, palestinesi, africani, sfruttati e sottopagati, cacciati e rimpatriati a forza quando non c’è più bisogno dei loro “servigi”. Intanto il tasso di disoccupazione è arrivato al 12 per cento. Secondo l’ultimo rapporto di Human Rights Watch le donne al lavoro sono sottoposte a continui abusi, oltre a discriminazioni salariali e professionali. Ogni tentativo di denunciare al situazione viene represso con accuse strampalate come quella di stregoneria. Quando la torta si restringe, le tensioni si moltiplicano e si addensano. L’Arabia Saudita diventerà un rompicapo per l’occidente e un fattore d’instabilità nel medio oriente? L’Iran tornerà la potenza di riferimento come ai tempi dello scià? Certo è che la linea rossa tracciata da Roosevelt a Lord Halifax nel 1944 non esiste più da tempo. Allora il presidente americano disse senza mezzi termini: il petrolio persiano è vostro, quello arabo è nostro. Oggi nessuno controlla fino in fondo la risorsa strategica che ha trasformato gli sceicchi da pastori nomadi in opulenti rentiers.

 

Fratelli, figli e figliastri di Ibn Saud per settant’anni hanno imposto il ruolo di pivot facendo leva sulla loro importanza strategica. Sono giunti a ricattare gli Stati Uniti, a minacciarli usando i militanti jihadisti se non come agenti consapevoli, certamente come memento mori: state attenti, vedete quali geni teniamo nascosti nella lampada, se li liberiamo possiamo scatenare la fine del vostro mondo. Adesso, al contrario, a muovere la monarchia saudita è la sua debolezza, è il timore di rimanere schiacciata tra la nuova potenza dell’Iran che dal Caspio arriva al Mediterraneo passando per la valle del Tigri e dell’Eufrate, e un’America autosufficiente sul piano energetico sempre più tentata di abbandonare l’irrisolvibile rompicapo mediorientale. E’ una situazione quanto mai pericolosa che indebolisce la presa dell’autocrazia saudita senza che nessun’altra élite dirigente sia all’orizzonte. E quando il vecchio muore prima che il nuovo sia nato, la storia trattiene il fiato.

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