Kim Jong-un festeggia il lancio dell'ultimo razzo coreano (foto LaPresse)

Se la Corea del nord non ha ancora la Bomba forse è merito di Israele

Giulia Pompili

Gli israeliani sono stati i primi a occuparsi dell’arsenale atomico nordcoreano, per una ragione egoistica: sin dagli anni Cinquanta Pyongyang ha rapporti commerciali molto fitti con alcuni paesi tradizionalmente considerati nemici di Gerusalemme

Roma. America, Giappone e Corea del sud sono i tre alleati direttamente coinvolti dalle minacce della Corea del nord. Ma a guardare bene la storia e l’evoluzione della strategia di Pyongyang, almeno dagli anni Settanta in poi, c’è un quarto paese che, nella distrazione generale, si è occupato più volte della questione nordcoreana e dei suoi arsenali: Israele. Perché ne parliamo oggi? Perché mercoledì scorso la Corea del nord ha testato un tipo di missile balistico, lo Hwasong-15, molto più avanzato rispetto a quanto la comunità internazionale si aspettava da Pyongyang –  fonti del ministero della Difesa giapponese, soltanto un mese fa, spiegavano al Foglio che lo spauracchio missilistico internazionale era lo Hwasong-14, la versione precedente dell’ultimo testato.

 

Per anni abbiamo usato la strategia del “negazionismo”: autorevoli scienziati ed esperti, da ogni parte del mondo, negavano la possibilità che la Corea del nord potesse raggiungere con successo la costruzione di un arsenale atomico e missilistico realmente minaccioso per l’America e il mondo libero. La potenza dell’ultimo test nucleare e degli ultimi tre missili balistici intercontinentali ha smentito per l’ennesima volta i dati dell’intelligence (la stessa intelligence che nel 2011, alla morte di Kim Jong-il, avrebbe scommesso sulla caduta del regime dei Kim “nel giro di pochi mesi”). E quindi, all’alba di una nuova prova di forza nordcoreana, la domanda è: come ha fatto un paese sanzionato da decenni, che mette alla fame il suo popolo, ad avere queste capacità?

 

Il primo paese a occuparsi dell’arsenale atomico nordcoreano è stato Israele, per una ragione egoistica: sin dagli anni Cinquanta Pyongyang ha rapporti commerciali molto fitti con alcuni paesi tradizionalmente considerati nemici di Israele. Si tratta di armi, convenzionali, chimiche e nucleari – durante la guerra del Kippur la Corea del nord mandò perfino dei soldati a combattere al fianco dell’Egitto. Per Gerusalemme fermare la Corea del nord significa strozzare le fonti di approvvigionamento di paesi come Iran e Siria. All’inizio degli anni Novanta si era quasi arrivati a un deal: la Corea del nord stava per vendere all’Iran gli scud Rodong 1, Israele aveva proposto alla Corea del nord, dopo varie trattative e incontri segreti, l’acquisto di una miniera d’oro nordcoreana, pagata in contanti, in cambio della non-consegna dei missili a Teheran. L’accordo fu mandato a monte dagli americani, secondo la versione israeliana. Ma il momento decisivo del coinvolgimento israeliano negli affari nordcoreani si ha il 22 aprile 2004, quando a Ryongchon, in Corea del nord, vicino al confine con la Cina, un treno salta in aria con un’incredibile detonazione. All’interno del convoglio viaggiavano una dozzina di siriani, poi sospettati di trasportare materiale nucleare. Più volte l’evento è stato legato alla successiva operazione israeliana Orchard, quando Israele – era il 6 settembre 2007 – bombardò il sito nucleare siriano di Deir Ezzor, una copia esatta di un reattore nordcoreano. Tre giorni prima la Corea del nord aveva consegnato al sito di Deir Ezzor una partita di cemento.

 

Il sistema regge ancora oggi: a fine settembre, come riportato sul Foglio da Daniele Raineri, alla parata militare delle Guardie rivoluzionarie iraniane hanno sfilato i missili Khorramshahr, pressoché identici ai Musudan nordcoreani. Il team di esperti dell’Onu che studia l’efficacia delle sanzioni investiga sistematicamente sulla “presenza diffusa” di cittadini nordcoreani in Siria e in medio oriente. E ci sarebbe sempre Israele dietro il difficile monitoraggio dei cargo nordcoreani che grazie alle false flag riesce a eludere le sanzioni – è anche per questo che si parla sempre di più, in Asia orientale, di un blocco navale contro Pyongyang.

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.