A Nairobi i sostenitori di Odinga festeggiano per la decisione dei giudici di invalidare il voto (foto LaPresse)

I giudici rimandano alle urne il Kenya, con una decisione storica

Daniele Lettig

Il verdetto con cui la Corte Suprema ha annullato le elezioni dell’8 agosto è indice di un rafforzamento della democrazia nel paese, ma apre un periodo di incertezza e tensione

Roma. In diretta televisiva davanti a un paese con il fiato sospeso, ieri i giudici della Corte suprema del Kenya hanno dato una dimostrazione di coraggio su cui pochi avrebbero scommesso, annunciando l’annullamento del risultato delle elezioni presidenziali dell’8 agosto scorso. Il voto aveva visto la vittoria del capo dello Stato uscente Uhuru Kenyatta sullo storico leader dell’opposizione Raila Odinga: quest’ultimo aveva denunciato immediatamente delle frodi e – dopo alcuni giorni ad alta tensione, con scontri nelle strade che hanno provocato almeno 28 morti – aveva infine deciso di fare ricorso alla Corte.

 

Le irregolarità su cui si era fondata l’istanza di Odinga non riguardavano lo svolgimento del voto, ma la procedura di trasmissione dei verbali di ciascun seggio alla sede della commissione elettorale: quando è stata proclamata la vittoria di Kenyatta, l’opposizione aveva lamentato la mancanza e l’incompletezza di migliaia di moduli.

 

 

Ieri la Corte ha dato ragione a Odinga, scatenando la felicità dei suoi sostenitori nelle strade delle sue roccaforti. Con una maggioranza di 4 a 2, i giudici hanno stabilito che la commissione elettorale (IEBC) “ha fallito, o non è riuscita a gestire le elezioni in modo conforme alla costituzione”, ha detto il presidente della Corte, David Maraga. Perciò, in base alla legge, un nuovo scrutinio dovrà essere celebrato entro sessanta giorni, mentre la Corte depositerà le motivazioni della sua decisione entro tre settimane. Il verdetto “è un esempio eccezionale per tutta l’Africa”, ha detto Odinga ringraziando i giudici e aggiungendo che “non ci sarà più spazio in Kenya per l’impunità”.

 

Quella del leader dell’opposizione è una vittoria che forse non si aspettava nemmeno lui. In un primo momento aveva detto che non avrebbe fatto appello alla Corte suprema: si sentiva ancora scottato dalla sentenza del 2013, quando il suo ricorso contro l’esito elettorale fu respinto nonostante fossero state dimostrate palesi irregolarità. Stavolta, la parte dell’agitatore di folle è spettata a Kenyatta, che dopo aver affermato di “non essere d’accordo ma di rispettare” il verdetto dei giudici, ha alzato il tiro, sostenendo che “Maraga e i suoi sgherri” sarebbero stati pagati “da stranieri e altri stupidi”.

 

“Tra la decisione della Corte del 2013 e quella del 2017 si può constatare un vero cambiamento del contesto”, ha spiegato Emmanuelle Pommerolle, direttrice dell’Istituto francese di ricerca in Africa di Nairobi. “Nel 2013, l'opinione pubblica temeva il ritorno delle violenze post-elettorali dopo quelle del 2007-2008”, quindi “ci fu una certa pressione sui giudici per confermare i risultati e non aprire un nuovo ciclo di violenza. Quattro anni dopo, questa retorica non è più predominante e questo può spiegare in parte la decisione dei magistrati”.

 

Oltre a essere una “prima” storica – non era mai successo in un paese africano che un tribunale invalidasse uno scrutinio – la scelta della Corte è quindi anche una scommessa sul futuro del Kenya e sulla tenuta delle sue istituzioni. Da un lato dimostra l’indipendenza del potere giudiziario da quello esecutivo: cosa affatto comune in Africa, e che segnala un consolidamento della democrazia keniana. Dall’altro, fa ripiombare il paese in una situazione d’incertezza, confidando nella capacità della popolazione di reggere – senza ricadere nella violenza sempre in agguato – alla sfida di un altro ciclo elettorale, che sarà caratterizzato da grandi incognite.

 

La più importante è quella del destino della commissione elettorale: l’IEBC è determinata a organizzare un nuovo voto entro i termini prescritti, ma Odinga e i suoi alleati vogliono che i suoi vertici si dimettano e vengano messi sotto processo, per rispondere delle irregolarità dello scrutinio. Una richiesta che potrebbe aprire una crisi dagli esiti imprevedibili: senza un accordo la scelta di una nuova commissione potrebbe richiedere mesi, e renderla comunque illegittima agli occhi di una parte dei keniani.  

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