Sostenitori della vittoria del Sì al referendum festeggiano nella notte di Erbil. I risultati ufficiali sono attesi per questa sera (foto LaPresse)

Il diario del risorgimento curdo

Adriano Sofri

Qui si può ancora dire che o si fa il Kurdistan o si muore. Cronaca dei giorni che hanno fatto la storia

Erbil. Venerdì notte: in una drammatica ennesima riunione – sono riunioni permanenti, ormai – Barzani e Kosrat si sentono comunicare la volontà americana che il referendum sia disdetto in un tono ultimativo, qualcosa che assomiglia molto, troppo, a un ordine. E’ il momento di più grande incertezza - la tempesta del dubbio, per così dire.

 

Sabato pomeriggio: mentre infuria una ridda di voci – non si fa più, si fa ma senza Kirkuk e le zone contese, si rinvia, si annulla… – il governatore di Kirkuk, Najmaldin Karim, si rivolge pubblicamente ai suoi concittadini esortandoli ad andare compatti a votare, smentendo che nel Puk (che è anche il suo partito) ci siano divisioni (cioè confermandole e di fatto denunciandole). Karim, 68 anni, è un neurochirurgo che ha studiato e vissuto a lungo negli Stati Uniti. Pochi giorni fa il parlamento di Baghdad ha votato la sua destituzione, ovviamente ignorata qui. I suoi avversari dicono che mira alla presidenza, una volta che Barzani la lasci e si tenga la sola aura di padre della patria: i suoi amici dicono che sarebbe un buon presidente.

 

Venerdì e sabato: Qasem Soleimani, l’uomo forte dell’Iran, il capo di al Quds, la branca militare internazionale dei Guardiani del Popolo, è venuto in persona a Suleymanyah prima e a Erbil poi a giocare la propria autorità contro il referendum. Soleimani, 60 anni, al bando dell’Onu e dell’occidente, ha da ultimo comandato le operazioni del fronte sciita in Siria – le forze di Assad, di Hezbollah, e quelle iraniane e irachene – ed è stato il suggeritore e il partner principale dell’intervento russo. Non può nemmeno immaginare che i curdi, del Puk in particolare, ignorino le sue minacce, che hanno dietro stavolta non solo Iraq e Iran, ma la stessa “nemica” Turchia. Soleimani alza la voce e arriva ad ammonire che gli americani sono dalla sua. L’ultima riunione notturna a Erbil finisce con il cortese rifiuto curdo: preferiscono di no.

 

Sabato sera. Kirkuk: un membro del Comitato cittadino del Puk, che è anche a capo di un buon numero di armati, gira per la città a diffidare la gente dal voto e a intimidire l’allestimento dei seggi. Circola la voce che si siano messi in testa addirittura di prelevare il governatore. La notizia genera subbuglio, oltretutto perché si dice che un personaggio importante come Lahur Talabani, nipote di “Mam Jalal”, capo dell’intelligence di Suleymanyah, appoggi il boicottaggio del referendum. La parte leale del Puk interviene e si sbriga a dissuadere l’autore del colpo di testa. Da qui in avanti il viavai di ordini e contrordini finisce: il referendum si terrà, e si terrà dovunque, soprattutto a Kirkuk.

 

Domenica mattina, Kirkuk. La città è assolutamente tranquilla, appena meno affollata del solito. La sorveglianza dei seggi è stata affidata a peshmerga e polizia del Pdk, la sicurezza della città e del territorio ai peshmerga del Puk.

 

Domenica pomeriggio: Masud Barzani convoca una conferenza stampa a Erbil. Molti giornalisti stranieri sono però in giro per il paese. La conferenza è lunga e viene trasmessa e tradotta in inglese dall’agenzia Rudaw. Barzani ha un tono deciso ma soprattutto affabile, si mostra tranquillo e lo diventa via via di più, risponde a una quantità insolita di domande non rinunciando ad aneddoti e battute. Conclusione: il referendum si farà.

 

Domenica notte. Kirkuk, gruppi di giovani passano la notte in strada davanti ai seggi: vogliono arrivare primi a votare.

 

Lunedì mattina: aerei iraniani bombardano due zone di montagna in territorio curdo, senza colpire insediamenti umani. “Per far vedere”.

 

Lunedì mattina: le milizie irachene, che hanno annunciato due giorni prima l’avanzata per la liberazione di Hawija (a sudovest di Kirkuk) dall’Isis escludendone i curdi, ci ripensano e chiedono la partecipazione dei peshmerga: accordata.

 

Lunedì: ai seggi di Erbil, per lo più in asili o scuole, c’è un’aria di festa familiare. Molti genitori arrivano coi bambini, nei vestiti tradizionali. Ogni seggio ha circa 2.600 iscritti. Fuori sono affissi gli elenchi con i nomi. L’iscrizione è avvenuta attraverso i documenti di identità e le tessere alimentari. Chi vota lascia la sua impronta digitale ed esce sollevando fieramente l’indice inchiostrato. Fotografie di polpastrelli inchiostrati dell’indice a sera avranno inondato Facebook.

 

Lunedì pomeriggio: la chiusura dei seggi viene prolungata di un’ora. A Kirkuk si ordina il coprifuoco per evitare incidenti da dopo-partita. Un po’ dovunque, l’abitudine a festeggiare sparando in aria complica il controllo della sicurezza. A sera, a Kirkuk, la visita di Kosrat e di una sua piccolissima scorta ai check-point viene accolta con una irresistibile entusiastica sparatoria dei peshmerga, subito scoraggiata.

 

Lunedì pomeriggio: l’Iran annuncia di aver chiuso il proprio spazio aereo ai voli da e per i due aeroporti curdi, Erbil e Suleymanyah. I voli bloccati subito sono quelli del Qatar, che non ha altre rotte. L’Iran minaccia anche di chiudere i valichi di terra. I curdi del Rojava “siriano”, poco teneri verso Barzani che denunciano come subordinato alla Turchia e complice della repressione del Pkk, questa volta elogiano il suo referendum e si dicono pronti a combattere con il Kurdistan indipendente.

 

A Baghdad il parlamento iraniano vota l’invio dell’esercito iracheno a Kirkuk, come se niente fosse.

 

Lunedì sera: si conoscono le percentuali di votanti. Altissime nelle “zone contese”, quelle che a tutti i costi non si voleva lasciar votare. A Khanaqin, importante città curda al confine con l’Iran, ufficialmente nella provincia di Diyala, è sfiorata la totalità degli aventi diritto. Khanaqin fu vittima dell’arabizzazione forzata e delle deportazioni di Saddam. Altissima anche a Shingal / Sinjar, dov’era prevedibile perché gli ezidi (yazidi), altre volte divisi fra aderenti al governo di Erbil e al Pkk, sono all’unanimità favorevoli al referendum, aspettandosi una propria autonomia all’interno di un Kurdistan indipendente. Così anche molti cristiani. Il risultato più significativo è quello di Kirkuk, dove ha votato il 75 per cento, dunque non solo i curdi ma anche un numero consistente di arabi e turcmeni. Si sottolinea la differenza di atteggiamento fra gli arabi di antica cittadinanza e quelli insediati da Saddam per capovolgere la demografia della città (gli “arabi dei diecimila”, dalla sovvenzione di cui godevano, in dollari). Nelle ultime ore sembra che abbiano lasciato Kirkuk molti giovani arabi spaventati, non dal referendum curdo, ma dall’arruolamento nelle file sciite di Hashd al Shaabi.

 

Lunedì sera: percentuali più basse in assoluto a Halabja e a Suleymanyah. Halabja, di recente proclamata quarta provincia del Krg (nei confini non contesi, con Erbil, Duhok e Suleymanyah) è la città bombardata per ore coi gas dall’aviazione di Saddam, il 16 marzo del 1988. Morirono 5 mila persone, civili, vecchi, donne, bambini, altre migliaia continuarono ad ammalarsi e morire dopo. Dopo la Shoah, non c’era stato un attacco genocida coi gas così vasto e deliberato. Halabja soffre di un riconoscimento inadeguato della propria tragedia, e questo le viene stoltamente imputato come vittimismo. Nel suo territorio aveva preso origine l’islamismo curdo, un cui disgustoso figuro è noto nella sua residenza norvegese come Mullah Krekar. Non c’è sorpresa per gli astenuti di Halabja. Ce n’è di più per quelli di Suleymanyah. L’avversione locale a Barzani e al suo partito, il Pdk, prevale qui spesso su un’aspirazione pur così sentita come l’indipendenza – il valore combattente di Suleymanyah è proverbiale – e per giunta una parte della dirigenza del Puk ha fatto intendere la propria freddezza sul referendum. Inoltre a Suleymaniah è più forte un’insofferenza sociale verso l’intero regime politico, la stessa che portò a votare massicciamente “per protesta” per un partito che si voleva nuovo e nemico della corruzione, Gorran, che avrebbe presto deluso le sue promesse. I votanti di Suleymanyah sono stati il 55 per cento, e ipocrisie e doppi giochi di questi giorni avranno una forte influenza sul prossimo voto politico.

 

Lunedì sera. Telefonate da Baghdad: il governo iracheno ha deciso la chiusura di tutti i consolati a Erbil. Perplessità. Anche quello americano? Gli Stati Uniti hanno costruito a Erbil il loro secondo consolato nel mondo per grandezza. E i tedeschi, i francesi, i britannici, accetterebbero di chiudere i loro consolati? (E gli italiani? – aggiunge uno. Scherza). Non era vero, comunque.

 

Martedì mattina. Il voto a Kirkuk, in cifre arrotondate: aventi diritto, 900.000. Votanti: 700.000. No: 150.000. Sì: 550.000. Risultato esemplare.

 

Martedì mattina. Si annunciano esercitazioni militari congiunte fra Turchia e Iraq ai confini col Kurdistan. Pochi mesi fa Baghdad e Ankara erano ai ferri corti per la presenza di truppe turche dentro i confini iracheni. I turchi pretendevano che si trattasse di addestratori delle milizie agli ordini dell’ex governatore della provincia di Mosul, scalzato dall’Isis e riparato a Erbil, e condannato per corruzione a Baghdad. I turchi rivendicavano anche loro diritti su Tell Afar e altri centri popolati da turcmeni, e addirittura sulla Mosul già ottomana e su Kirkuk. Le loro postazioni militari attorno a Bashiqa non si sono mai mosse, ora fanno esercitazioni anticurde insieme agli iracheni.

 

Martedì mattina. L’Iraq avrebbe chiesto e ottenuto dalla Turchia di spostare in territorio turco i controlli doganali che oggi si svolgono ai valichi curdi. Per giustificare simili stravaganze si citano trattati e accordi del 1926 e dintorni. I turchi a loro volta dicono che chiuderanno il confine, non ai beni in uscita dalla Turchia, ma a quelli in entrata dal Kurdistan. Misura enigmatica: che cosa faranno i duemila camion al giorno che transitano da Zakho? Scaricheranno e resteranno a vivere in Kurdistan? Torneranno vuoti? E i 10 mila miliardi di dollari annui che sono la cifra d’affari turco-curda? La Turchia minaccia di chiudere anche l’oleodotto che porta il petrolio curdo nel suo territorio e fino al Mediterraneo: già, ma la Turchia consuma petrolio e gas curdo. Provvederà l’Iran via autocisterne?

 

Martedì mattina. In Iraq la gara a vendicare l’onore nazionale (cioè iraniano) calpestato dalla mancata rinuncia curda al referendum si fa frenetica. Perfino un oltranzista come Maliki è scavalcato dall’invadenza delle milizie sciite Hashd Shaabi (già “paramilitari”, ormai regolarizzate) che intendono presentarsi direttamente alle elezioni e rivendicare per il proprio capo, Hadi al Amiri, la presidenza della repubblica. Amiri, 63 anni, già ministro dei trasporti a Baghdad, è devotissimo a Qassem Soleimani, il cui pesante intervento per ottenere la rinuncia al referendum è appena stato frustrato.

 

Venerdì-martedì: la decisione di resistere a tutte le pressioni e le minacce e tenere il referendum si deve soprattutto alla collaborazione tra due uomini, che sono formalmente il presidente (scaduto e prorogato) del Krg, Masud Barzani, 71 anni, e il suo vice, il leggendario comandante Ali Rasul Kosrat, 65. Uno è a capo del Pdk, l’altro è uno dei capi del Puk, oggi il più popolare e autorevole, dopo che una malattia ha messo fuori gioco Jalal Talabani. Talabani è in un ospedale in Germania. Anche Kosrat è invalido per antiche ferite, ma è, dicono i suoi, un leone. E’ il più animato da uno spirito unitario e non ha paura di andare controcorrente nel proprio stesso partito. Il quale l’avrebbe già fatto fuori, se non temesse il suo prestigio fra i peshmerga. Il rapporto umano fra questi due vecchi rivali è un capitolo formidabile dell’eventuale romanzo del Kurdistan indipendente.

 

Quanto ai romanzi: detta da noi, oggi, la frase “Qui si fa l’Italia o si muore” suona probabilmente comica o parodistica, e chissà che cosa verrebbe fuori se si chiedesse in giro chi e perché la pronunciò. (De Gregori, direte voi. Garibaldi, scrisse Abba, a Calatafimi). Be’, rassegnamoci, senza perdere il nostro umorismo: ci sono ancora posti e momenti in cui si può dire “Qui si fa il Kurdistan o si muore”, parlando sul serio.

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