Strategie un po' troppo suicide

Daniele Raineri
Lo Stato islamico ha un alone di invincibilità ma commette errori militari rovinosi e perde territorio (ma non la capacità di fare stragi). Tre storie da Iraq, Siria e Libia

Lo Stato islamico è una giunta militare islamista che funziona secondo meccanismi opachi, ancora poco compresi, e questo contribuisce al suo alone di pericolosità. Come si sa, alcuni dei suoi comandanti provengono dall’epoca e dalle forze armate del dittatore iracheno Saddam Hussein e sono sopravvissuti e invecchiati attraverso strati spessi di rodaggio militare: prima l’impostazione di stampo sovietico, perché Mosca mandava consiglieri militari nei paesi arabi (come è tornata a fare oggi); poi il conflitto di dieci anni contro l’Iran (spesso dimenticato, ma fu un incubo per chi l’ha vissuto, tra armi chimiche e assalti suicidi); infine la guerriglia a partire dal 2003 contro i soldati americani, che poi si è affievolita fino a diventare un test di resistenza personale per chi ancora vi aderiva, attorno al 2010. Tuttavia, anche questi veterani, messi davanti al bivio fra due scelte, a volte sbagliano e imboccano la rampa per il disastro. Lo Stato islamico ha perso circa un quinto del suo territorio tra gennaio 2015 e il 14 marzo 2016, come mostra una mappa aggiornata dal gruppo britannico jane’s, che si occupa di informazione militare, e questo rimpicciolimento è in parte dovuto a decisioni rovinose – che, attenzione, aumentano la possibilità di attentati in occidente e non la diminuiscono. Ecco tre storie significative, in Iraq, Siria e Libia.   

 


La mappa di jane’s mostra che lo Stato islamico ha perso un quinto del suo territorio in 14 mesi


 

 

Attaccare Erbil invece che Baghdad

 

Secondo Alexander Mello, un esperto di sicurezza che lavora come consulente militare in Iraq, lo Stato islamico ha commesso l’errore strategico più grave nel giugno 2014, proprio quando era all’apice del suo successo. Invece che puntare con risolutezza verso sud e verso Baghdad, capitale dell’Iraq, il gruppo scelse di muovere verso est contro Erbil, capitale del Kurdistan iracheno. Si era allora nel pieno della serie di vittorie militari che hanno consegnato un terzo dell’Iraq in mano al gruppo comandato da Abu Bakr al Baghdadi. L’espansione procedeva rapidissima. Da nord, dall’asse autostradale Tikrit-Samarra che corre accanto al fiume Tigri, non mancavano che settanta chilometri. Da ovest dalla regione dell’Anbar, lungo la direttrice Fallujah-Abu Ghraib che corre accanto all’Eufrate, meno di venti chilometri. Gli uomini dello Stato islamico potevano bombardare con i mortai l’aeroporto internazionale di Baghdad, che è a mezz’ora di auto dal centro della città, dalla Zona verde che simboleggia il centro del potere. Non c’è un altro obiettivo così ambito da loro: nella complicata messinscena che i comandanti dello Stato islamico rappresentano in medio oriente, tutta giocata sul tema del ritorno del Califfato e sulla cacciata degli sciiti, Baghdad è la sede del califfato abbaside, che è precisamente quello cui s’ispirano Baghdadi e i suoi. Persino le vesti cerimoniali nere che lui indossava durante la predica registrata in video a Mosul, e che alcuni dei suoi indossano durante le stragi di prigionieri, sono ispirate ai costumi di corte abbasidi – per tacere delle foto a cavallo in cui indulgono spesso. Quale traguardo migliore, dopo la presa di Mosul? E’ verosimile che non l’avrebbero presa, ma sarebbero scivolati dentro i quartieri sunniti che restano a ovest e sud, forse avrebbero trovato un’accoglienza simpatetica, il significato politico e storico sarebbe stato enorme, l’eccitazione fra le reclute sparse in giro sarebbe salita a un pari livello: eccoci in guerra per cacciare gli sciiti dalla sede del Califfato. Non ci sarebbero riusciti, ma sarebbe stato un periodo di panico, di reazioni scomposte, di combattimenti urbani, di interventi stranieri d’urgenza.

 

Invece, è come se, al momento supremo di dirigersi verso il bersaglio più ambizioso, i leader dello lo Stato islamico avessero frenato, come se non avessero creduto alla possibilità di arrivare alla capitale – proprio loro, che combattono in obbedienza a un’utopia di dominio islamista universale. In qui giorni sui forum girava un’esortazione alla pazienza strategica: “Sabr Sabr, ya Baghdad”, che si può tradurre in modo abbastanza libero: piano piano arriviamo, Baghdad. Mello dice al Foglio che nell’estate 2014 un’offenisva limitata contro il Kurdistan iracheno aveva senso, per spingere i curdi lontano da Mosul, da Tal Afar, da Qayyara e da altre roccaforti storiche dello Stato islamico, ma lo Stato islamico fu tratto in inganno dalla rapidità con cui le forze di sicurezza curde collassarono, ed esagerarono: provarono a prendere anche Erbil, facendo scattare la reazione americana.

 

Steve Coll, autore del libro migliore scritto su al Qaida (“Le altissime torri”, 589 pagine, Adelphi 2007), scrisse nell’agosto 2014 che il presidente americano Barack Obama fece bene a ordinare i primi bombardamenti contro lo Stato islamico per fermare il gruppo alle porte di Erbil e per proteggere le migliaia di americani in città. “Non che siamo lì per turismo”, spiegò, citando le compagnie petrolifere occidentali che a Erbil partecipavano al clima festoso di deregulation alla faccia del governo centrale di Baghdad, ma non si poteva fare altrimenti: non si poteva rischiare che facessero ostaggi, come i 47 turchi del consolato di Mosul. Un mese dopo il segretario di Stato, John Kerry, disse alla giornalista di Cnn Christiane Amanpour: “Quello che abbiamo fatto è stato fermare il massacro. Questo è quello che siamo riusciti a fare con la superiorità di fuoco degli aerei. Stavano arrivando a Erbil, stavano arrivando a Baghdad. Baghdad poteva cadere, Erbil poteva cadere. Potevano prendere il controllo di tutti i pozzi di petrolio”.

 

Per rappresaglia contro quei primi raid aerei, lo Stato islamico decise di uccidere gli ostaggi occidentali davanti a una telecamera, a partire da James Foley. Fu un modo di spenderli diverso dal piano originale, che era quello di creare una Guantanamo a parti rovesciate, dove rinchiudere i prigionieri. L’immagine di Jihadi John vestito di nero e di Foley in ginocchio in arancione fu pubblicata su tutti i giornali, l’attenzione si accese infine sullo Stato islamico, il livello di interesse raggiunse la quota che il problema merita – come non era successo dopo la caduta di Mosul. L’assassinio in serie degli ostaggi occidentali fu l’atto di nascita della Coalizione anti Stato islamico, che aveva rinunciato al suo sogno, l’assalto a Baghdad, ma si era lo stesso attirato addosso i nemici internazionali.

 


Immagini tratte da due video dello stato islamico messi in circolazione due giorni fa, dall’Iraq e da Deir Ezzor, in Siria. L’uomo con lo zainetto a fiori è evaso dal carcere di Abu Ghraib nel 2013


 

 

L’imbuto di Kobane

 

Pochi mesi dopo, lo Stato islamico cascò nell’errore opposto. Dove avrebbe dovuto lasciar perdere, si impuntò. Dove avrebbe dovuto essere circospetto, inseguì a tutti i costi il sogno del trionfo militare. Successe al confine tra Siria e Turchia, nel cantone di Kobane, tra settembre 2014 e gennaio 2015. Il gruppo armato aveva conquistato tutti i villaggi attorno a Kobane e spingeva i curdi verso il posto di frontiera turco, come verso un imbuto. Le immagini satellitari di quei giorni mostravano centinaia di auto abbandonate a pochi metri dai reticolati, come spiaggiate, perché ormai inutili: si poteva passare soltanto a piedi. A Kobane restavano soltanto poche centinaia di curdi decisi a difendere l’ultimo strapuntino curdo in mezzo a un territorio annesso nel giro di poche settimane allo Stato islamico. Dapprima il Pentagono ostentò disinteresse per la situazione e definì Kobane uno scenario a bassa priorità, rispetto all’Iraq e ad altre parti della Siria. Il punto massimo dell’avanzata dello Stato islamico tra le case fu toccato con un video interpretato da John Cantlie, un giornalista britannico tenuto in ostaggio dal 2013, che spesso compare nella propaganda del gruppo nelle vesti di un reporter che svela la menzogne dei media occidentali. Cantlie guardava a destra e sinistra con sarcasmo, chiedeva: “Dove sono i curdi?”. La battaglia di Kobane si trasformò presto in una trappola per gli islamisti. Costretti a spostarsi su un terreno scoperto, senza neanche un albero, esposti agli attacchi aerei americani che accelerarono d’intensità all’improvviso, cominciarono per la prima volta a subire perdite enormi. Non ci sono numeri, ma si stima sopra i mille. Per la prima volta, la fama di invincibilità dell’esercito di Baghdadi s’incrinò. Quando compresero l’errore – concentrarsi in grandi numeri sotto le bombe di precisione, come fossero reparti di fanteria prima dell’invenzione degli aerei – era troppo tardi. Su Internet cominciarono a circolare i martirologi dei comandanti più famosi, uccisi assieme ai combattenti. Una circolare proibiva di dormire in più di dieci sotto lo stesso tetto, per limitare il numero delle perdite in caso di bombardamento. Una fonte di al Qaida, che parla con il risentimento proprio di un gruppo rivale, disse al Foglio che a vedere la strage di volontari islamici a Kobane si comprendeva che lo Stato islamico è in realtà un complotto contro l’islam militante: “Attirano migliaia di giovani e poi li mandano al macello così, era un piano per sterminare tutti i volontari”. Ormai la piccola città curda era stata dichiarata conquistata, è probabile che la giunta islamista non volesse perdere la faccia. Era ancora l’inizio del 2015, il flusso di foreign fighters in arrivo da ottanta paesi nel mondo verso lo Stato islamico era ancora impetuoso, centinaia ogni mese, non si era ridotto al rivolo di oggi, ma lo stesso la testardaggine cieca di Kobane fu una strategia suicida.

 

Secondo Jeff White, ex analista dell’intelligence militare americana che oggi lavora in un think tank di Washington, questa arroganza tattica è la cifra dello Stato islamico. “Conquistano più spazio di quello che riescono a controllare una volta che i nemici si sono ripresi dalla loro offensiva, – dice al Foglio – Sottovalutano gli effetti degli aerei da guerra in un terreno desertico e non hanno difese aeree. Hanno anche sottovalutato la resistenza delle forze del  governo iracheno, una volta che sono state rafforzate dagli Stati Uniti e da altri partner. Fanno ancora affidamento su forze leggere e mobili contro avversari sempre meglio corazzati e appoggiati da aerei che operano impunemente”. C’è anche un errore di visione: “Non creano le infrastrtture necessarie a una guerra di attrito seria e a lungo termine. E hanno una dipendenza da saccheggio, per quello che riguarda le armi pesanti e il resto delle loro risorse”.

 

 

Lo sbaglio strategico a Sabratha

 

In Libia lo Stato islamico non si è trovato davanti a grosse scelte strategiche, ma ha commesso un serio errore nel campo della sicurezza. Ha scelto un luogo sbagliato per condurre le sue attività clandestine, la città di Sabratha, sulla costa a metà strada tra Tripoli e il confine tunisino. In un fumetto western, si direbbe che Sabratha è “un verminaio”, “da scoperchiare”. Nessuno l’ha fatto per più di un anno, poi c’è stato un raid aereo americano venerdì 19 febbraio che ha cominciato lo scoperchiamento. In questo caso si può cominciare dalla fine.

 

Lunedì 7 marzo l’organizzazione ha tentato un assalto in grande stile alla città di Ben Guerdane, in Tunisia, poco oltre il confine. In realtà, secondo i media locali, l’assalto era in programma per venerdì 11 marzo, ma i guerriglieri sono stati costretti ad agire in anticipo perché il fratello di uno dei leader s’è fatto arrestare a un posto di blocco dalla polizia tunisina – sabato 5 marzo – anche comprensibilmente, perché ha tentato di strangolare uno degli agenti. Temendo che potesse confessare e rivelare i piani dell’attacco, la colonna dello Stato islamico ha attaccato la città. Lo scopo non era conquistarla e tenerla, perché è ancora impensabile sfidare in campo aperto le forze di sicurezza tunisine. E’ più probabile che si cercasse la prova di forza, un raid fra le case a caccia degli ufficiali della forza antiterrorismo locale – “L’emiro ci ha urlato: ‘Voglio la testa del loro capo’”, ha confessato un membro del gruppo. In effetti il capo dell’antiterrorismo di Ben Guerdane è stato trovato e ucciso. Il resto dell’operazione è finito in disastro, per gli aggressori. Cinquanta sono morti, incluso l’uomo che secondo il piano doveva diventare l’emiro locale, Miftah Manita, e il mentore spirituale, Hassan Bousbieh, altri sono stati catturati. Dopo l’assalto fallito sono stati scoperti nascondigli di armi, video incriminanti, connessioni che hanno portato ad altri arresti. Non c’è stata alcuna notizia sui canali ufficiali dello Stato islamico, e questo succede soltanto in presenza di uno smacco.

 

La decisione di anticipare l’assalto a Ben Guerdane a sua volta è arrivata in un clima già d’emergenza, perché lo Stato islamico in Libia sta perdendo le sue basi sicure in quelle che un tempo considerava le sue retrovie a Sabratha. Con il raid oltreconfine, lo Stato islamico in Libia tentava di applicare una delle sue regole di guerra: “When in trouble go big”, ovvero per toglierti da una situazione di crisi devi prendere un’iniziativa decisa e in grande stile. Tentava anche di sorprendere, perché in queste settimane tutti gli osservatori si aspettano un attacco internazionale in Libia contro la capitale di fatto, Sirte, che è al centro del paese, oppure contro l’altro fronte ancora più a est, Bengasi. Voi guardate a est, noi irrompiano a ovest, doveva essere il messaggio.

 

Invece, posizionare le basi e i campi d’addestramento a Sabratha non ha funzionato. I capi locali dello Stato islamico, per esempio Abdullah Dabbashi – che è anche legato al sequestro dei quattro lavoratori italiani della Bonatti –, avevano raggiunto un compromesso con il resto della città, un patto di non belligeranza: si impegnavano a non svolgere attività alla luce del sole, per non attirare droni e bombe, e in cambio godevano della silenziosa ospitalità di un posto abitato e a un’ora di macchina dal confine tunisino. Tutti e tre i grandi attacchi dello Stato islamico in Tunisia sono stati preparati a Sabratha a partire dal gennaio 2015: la strage al museo del Bardo nella capitale, la seconda strage sulla spiaggia di Sousse e infine questo attacco militare oltre frontiera. E’ chiaro però che il nascondiglio non ha funzionato. Ci sono rumors sul fatto che gli inglesi volessero bombardare i covi “nascosti” in città da mesi, ma che non abbiano agito per non interferire con il gracilissimo processo politico libico. Venerdì 19 febbraio, come detto, due jet americani hanno colpito una villa con quaranta combattenti dello stato islamico che preparavano l’assalto in Tunisia (“aspettavamo di essere in duecento”, ha detto un prigioniero), e dopo le bombe i locali hanno ritrovato lo zelo antiterrorismo smarrito fino ad allora e hanno ingaggiato una campagna militare più o meno efficace. Lo Stato islamico si è fidato degli alleati locali ma poi è stato abbandonato, e in queste settimane sta pagando il prezzo dell’errore.

 

Di più su questi argomenti:
  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)