Un gruppo di migranti camminano lungo il filo spinato eretto tra Ungheria e Serbia (foto LaPresse)

L'Ue vince il primo round sulle quote dei migranti, ora si apre la partita politica

Luca Gambardella

La Corte di Giustizia respinge i ricorsi di Polonia e Ungheria. Ora Bruxelles deve scegliere se andare oltre le sanzioni e iniziare a difendere davvero quei princìpi fondamentali che il Gruppo di Visegraad mette in discussione

Roma. Come ci si aspettava la Corte di Giustizia dell'Ue ha respinto i ricorsi di Ungheria e Slovacchia contro l'obbligo di accogliere le quote di richiedenti asilo da Italia e Grecia. E' una vittoria per l'Ue: oltre a ribadire in modo indiscutibile che il sistema di ricollocamento è uno strumento efficace per risolvere la crisi dei migranti (aspetto che il premier ungherese Viktor Orban contestava), Bruxelles ha vinto una battaglia legale che metteva in dubbio i princìpi di solidarietà tra gli stati membri. Ora l'Ungheria – che da quando sono entrate in vigore le quote nel 2015 non ha accolto nemmeno un richiedente asilo – potrebbe essere sanzionata se non accetta la sua quota, che è di 1.294 persone. Il programma di ricollocamento, che comunque ha dimostrato finora molti limiti, scadrà il prossimo 26 settembre, ma in Italia e in Grecia restano ancora circa 25 mila richiedenti asilo che hanno i requisiti per essere trasferiti. Non è l'unica notizia che arriva oggi da Bruxelles e che riguarda la querelle sui migranti aperta con l'Europa dell'est. Oggi Politico Europe ha pubblicato la lettera con cui il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, ha rispedito al mittente la richiesta – al limite della provocazione – formulata dal governo ungherese qualche giorno fa per ottenere dall'Ue il finanziamento del suo muro anti-migranti. Ricevete già abbastanza soldi, ha replicato in sostanza Juncker (i fondi europei finanziano già il 3 per cento del pil ungherese), e i muri in Europa abbiamo appena finito di abbatterli, non desideriamo costruirne altri.

 

 

Fin qui le provocazioni e la vicenda legale. Ma l'attenzione generale si sposta ora sulle prossime mosse politiche che l'Ue intende adottare nei confronti dei paesi dell'Europa orientale. Gli stati membri del Gruppo di Visegraad – che include Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca – sono il blocco antagonista al patto stretto da Macron e Merkel per rilanciare il processo di integrazione europea. Il presidente francese, per esempio, ha parlato della necessità di creare un budget dedicato in via esclusiva ai paesi dell'Eurozona, mentre Berlino auspica passi avanti per la creazione di un esercito europeo. Ma ieri, il presidente polacco Andrzej Duda ha mandato un nuovo avvertimento a Bruxelles: la Polonia resta contraria al motore franco-tedesco e, invece di dimenarvi tanto per la Brexit, preoccupatevi dei rischi che porta l'Europa a doppia velocità. Alla fine, ha detto Duda, il risultato del piano di Macron e Merkel "potrebbe essere un'Ue divisa, non sostenibile da un punto di vista politico ed economico, che potrebbe spezzare il blocco".

 

Ma quello sui migranti è solo uno dei tanti fronti aperti da Varsavia nei confronti dell'Ue. Il governo polacco ha fatto approvare una legge che limita l'indipendenza dei giudici e che legittima un maggiore controllo sul sistema giudiziario da parte del governo. La Commissione Ue ha chiesto di inserire la questione nell'agenda del Consiglio dei ministri europei del prossimo 25 settembre, ma Varsavia, sempre per bocca del presidente Duda, rivendica la sua autonomia: "E' normale che le istituzione dell'Ue vogliano estendere i loro poteri, ma il nostro lavoro è dire 'Aspettate un minuto, state entrando in un campo dove non c'è posto per voi'". A essere in pericolo, e di questo se ne sono resi conto sia la Commissione europea sia l'Europarlamento, sono due pilastri dell'Ue: quello delle garanzie allo stato di diritto e quello, non secondario, del rispetto delle norme europee fondamentali sui diritti umani e la democrazia. L'ha sottolineato anche un'analisi pubblicata dal think tank Carnegie Europe, che pone il problema politico, oltre a quello legale, riguardo al futuro delle relazioni tra Bruxelles e i paesi del Patto di Visegraad. "Se l'Ue permette ai due stati membri (Polonia e Ungheria, ndr) di voltare le spalle ai valori basilari dell'Unione, l'effetto contagio sarà enorme", hanno scritto Heather Grabbe e Stefan Lehne. Lo aveva già detto il Parlamento europeo lo scorso maggio, approvando una risoluzione che chiedeva alla Commissione di adottare contromisure che andassero oltre le semplici sanzioni economiche nei confronti degli stati ribelli: se coloro che beneficiano già di grandi quantità di denaro dall'Ue minacciano lo stato di diritto, fomentano i nazionalismi e le divisioni tra i 27 stati membri, serve una reazione più decisa. La chiave sarebbe azionare l'articolo 7 del Trattato sul funzionamento dell'Ue, che prevede la sospensione del diritto di voto al Consiglio per quei paesi che violano i princìpi democratici e della separazione dei poteri. La sua attivazione, che finora non ha precedenti, è stata già ipotizzata dall'Europarlamento nella risoluzione di maggio scorso nei confronti dell'Ungheria, che aveva appena approvato una legge contro le ong finanziate da Soros e che limitava la libertà accademica. Ma per ricorrere all'articolo 7 servirebbe l'unanimità degli stati membri, una condizione quasi impossibile da ottenere, data la solidarietà reciproca tra i paesi dell'Europa dell'est. Eppure, dice Carnegie, qualcosa va fatto. Per dimostrare a Varsavia e Budapest che la solidarietà europea – come ha scritto oggi Juncker a Orban – "deve essere una strada a doppia direzione" e che la tutela della democrazia in Polonia e Ungheria è un problema che riguarda da vicino anche gli altri stati membri.

  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.