aila Odinga, leader dell’opposizione (foto LaPresse)

L'eccezione democratica del Kenya messa alla prova da Odinga

Daniele Lettig

Sono 24 le vittime accertate degli scontri dell’ultima settimana, ma la maggior parte del paese è tranquilla e il presidente Kenyatta invita alla riconciliazione

Roma. Il sentimento dominante in Kenya nelle ultime ore è quello dell’attesa: con un misto di paura e tensione si aspetta infatti domani, quando Raila Odinga, leader dell’opposizione della National Alliance (NASA), sconfitto nelle elezioni presidenziali di martedì scorso, annuncerà “la via da seguire”. È quanto ha promesso ieri ai suoi simpatizzanti, rompendo il silenzio a un giorno e mezzo dalla proclamazione dei risultati ufficiali, cha hanno sancito la vittoria del presidente uscente Uhuru Kenyatta con il 54,27 per cento dei voti.

 

Nonostante i numerosi appelli internazionali alla calma e all’uso delle vie legali per contestare i risultati elettorali, Odinga ha usato toni poco concilianti. Parlando sullo sterrato di una piazza di Kibera, uno slum di Nairobi, ha paragonato la situazione del paese a quella dell’Iran al tempo dello Scià, e ha invitato a scioperare nella giornata di oggi come segno di lutto “per chi è stato ucciso dagli squadroni della morte” del partito di Kenyatta. “Non abbiamo ancora perso”, ha aggiunto.

 

 

“Oggi è il giorno del signore e la bidonville è calma. Noi aspettiamo le indicazioni di Raila”, hanno detto ai giornalisti presenti i sostenitori di Odinga: “Se ci dirà di restare a casa, ci rinchiuderemo. E se ci dirà di andare a combattere, caricheremo. È nostro padre”. Dichiarazioni che dimostrano quanto sia forte l’influenza del settantaduenne capo storico dell’opposizione, che oggi in un’intervista al Financial Times ha detto che non si ricandiderà alle prossime elezioni e che presto fornirà “prove inconfutabili” dei brogli.

 

Tuttavia, Odinga sembra con le spalle al muro: se rimarrà fermo nella decisione, annunciata dal suo braccio destro James Orengo, di non impugnare il risultato del voto davanti alla Corte suprema – come fece nel 2013 quando il suo ricorso fu respinto – il 29 agosto Kenyatta si insedierà ufficialmente. La scelta di fare appello a uno sciopero generale sembra dunque essere un modo per guadagnare ancora un po’ di tempo e capire qual è la sua forza reale nel paese.

 

Infatti, nonostante le violenze dell’ultima settimana, gran parte del Kenya rimane tranquillo – anche per la presenza sul terreno di 150 mila soldati, la più grande operazione di sicurezza nella storia del paese – e la maggior parte della popolazione non sembra condividere le accuse di Odinga dopo un voto a cui ha partecipato il 78 per cento degli iscritti alle liste e che tutti gli osservatori hanno definito trasparente. In un paese in cui la politica è ancora fortemente influenzata dall’appartenenza tribale, l’etnia Luo – alla quale appartiene Odinga, e che è sempre stata esclusa dalla gestione del potere – è stata l’unica a manifestare, scontrandosi contro le forze di polizia e in alcuni casi con i simpatizzanti di Kenyatta, membro dell’etnia Kyukyu: i principali esponenti degli altri gruppi etnici hanno invece mantenuto una posizione attendista.

 

Gli scontri erano iniziati dopo che Odinga, mercoledì, aveva rifiutato l’esito del voto definendolo “una frode”, e il loro bilancio resta incerto: la Commissione nazionale keniana per i diritti umani (KNCHR) sabato ha detto che i morti accertati sono 24: tra essi, una bambina di 9 anni uccisa da un proiettile vagante nello slum di Mathare, a Nairobi. Comunque, le violenze – avvenute in alcune bidonvilles di Nairobi e Kisumu, roccaforti di Odinga – non possono per ora essere paragonate a quelle scoppiate dopo le elezioni del 2007, che coinvolsero tutte le province provocando almeno 1100 morti e 600 mila sfollati.

 

Di fronte a un’opposizione che agita lo spettro delle armi, a partire da venerdì sera Kenyatta ha assunto il ruolo del pacificatore: “Non siamo nemici, siamo cittadini della stessa Repubblica. Le elezioni vanno e vengono, il Kenya è qui per restare”. Se riuscirà a mettere a tacere i sospetti di brogli e a evitare una repressione sanguinosa in caso di nuovi scontri, il presidente potrà consolidare la sua posizione e quella del paese nello scacchiere dell’Africa orientale. Il Kenya è infatti un’eccezione democratica circondata da paesi falliti come Somalia e Sud Sudan o dittature sanguinose come Etiopia, Ruanda o Burundi. E inoltre ha un’economia in pieno sviluppo, soprattutto nei settori tecnologici e infrastrutturali: negli ultimi quattro anni è il pil è cresciuto in media del 5,3 per cento, anche se la corruzione resta endemica e le disuguaglianze sono ancora fortissime.

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