Dopo l'alluvione le fosse comuni: come si spiega il dramma del Sierra Leone
L’ondata di fango di lunedì ha ucciso 400 persone e spazzato interi quartieri costruiti sulle colline attorno alla capitale. In uno dei paesi più poveri del mondo, nonostante le sue risorse naturali, ora è fortissimo il rischio di epidemie
Roma. Le reali dimensioni della devastante alluvione che nella notte tra domenica e lunedì scorso ha colpito Freetown, la capitale del Sierra Leone, sono diventate più chiare solo a quattro giorni di distanza, quando i soccorritori sono stati costretti a seppellire la maggior parte dei corpi trovati in fosse comuni. I morti accertati sono quattrocento, di cui almeno 105 bambini, ma oltre seicento persone sono ancora disperse, e migliaia di sopravvissuti all’ondata di fango che ha travolto interi quartieri della città hanno perso la loro casa. Il governo ha allestito un centro d’accoglienza per tremila residenti del sobborgo di Regent, dove l’onda arrivata dopo giorni di pioggia torrenziale ha fatto crollare un’intera collina.
“Non abbiamo abbastanza persone per scavare tombe individuali”, ha spiegato al New York Times il coordinatore della squadra incaricata di occuparsi delle sepolture, Mohamed Kamara, aggiungendo che i primi 320 corpi sono stati seppelliti assieme martedì pomeriggio nel cimitero di Waterloo, un altro sobborgo di Freetown. Nel frattempo, il governo ha fatto appello a tutti coloro che hanno perso dei familiari a recarsi negli obitori di fortuna allestiti in città, per riconoscere le salme.
“Abbiamo iniziato a seppellire una parte dei corpi mutilati o in decomposizione”, ha detto invece mercoledì Sulaiman Zaino Parker, un membro del consiglio municipale della città: “Tutte le vittime avranno diritto a una sepoltura degna, secondo i riti musulmani e cristiani”. In Sierra Leone una maggioranza (circa il 78 per cento) di fedeli musulmani – in gran parte sunniti – convive in modo pacifico con il restante venti per cento di cattolici: non ci sono mai stati gravi episodi di violenza confessionale, e anche durante la lunga guerra civile (1991-2002) la tolleranza religiosa non è mai venuta meno.
Le sepolture di massa degli ultimi giorni a molti abitanti del piccolo paese africano hanno evocato proprio i giorni più bui della guerra civile: l’altra grande catastrofe che ha segnato il paese dopo l’indipendenza dal Regno Unito, assieme all’epidemia di Ebola del 2014-16.
I primi aiuti internazionali sono già arrivati nel paese, ma la situazione resta quella di una vera emergenza umanitaria: mentre ancora si cercano i dispersi è elevatissimo il rischio che scoppino delle epidemie di malattie come colera, tifo o dissenteria. E non va esclusa la possibilità di nuove inondazioni e ondate di fango: nell’Africa equatoriale questa è infatti la stagione delle piogge.
L’alluvione di lunedì non è stato un evento del tutto inaspettato in Sierra Leone, il paese africano che registra il più alto livello di precipitazioni durante l’anno: anche negli anni passati Freetown è stata colpita da inondazioni che hanno provocato morti ed epidemie. A fare la differenza sono state però le dimensioni della catastrofe, strettamente legata a un’espansione urbana caotica e all’indifferenza dei poteri pubblici.
Freetown si affaccia sull'Atlantico alle pendici di una zona collinare ed è sovrappopolata da un milione e duecentomila persone, un quinto di tutti gli abitanti del paese. Molti si sono spostati nella capitale attirati dalla speranza di un lavoro che gli permettesse di sopravvivere. Abitazioni di fortuna sono quindi sorte nelle periferie e su bordi delle colline nel frattempo disboscate, aprendo così la strada al degrado del territorio che è all’origine delle inondazioni: nel 2015, il 60 per cento delle abitazioni di Freetown erano state classificate come slums.
La deforestazione – ha spiegato alla BBC Jamie Hitchen, dell’Africa Research Institute – è però anche opera di alcuni degli abitanti più benestanti di Freetown, che hanno costruito le proprie case sulle pendici delle colline attorno alla città, a poca distanza da dove è passata l’ondata di fango di lunedì, per godere della vista sull’Oceano. Il tutto in assenza di controlli e piani che potessero regolare il proliferare selvaggio delle costruzioni, e in un clima di corruzione dilagante.
Il governo, dopo l’ultima inondazione del 2015, ha provato a far trasferire gli abitanti delle bidonville in zone più sicure, ma senza successo. “Hanno fornito le case, ma non le hanno legate alla possibilità di trovare lavoro”, ha detto ancora Hitchen: perciò, in mancanza di altre opportunità per guadagnarsi da vivere, molte persone hanno affittato le case fornite dallo Stato e sono tornate a vivere negli slums.
Una circostanza comprensibile visto che il Sierra Leone è uno dei paesi più poveri del mondo, in cui oltre metà degli abitanti sopravvive grazie all’agricoltura di sussistenza mentre il resto del sistema economico si regge sull’estrazione e l’esportazione dei minerali di cui il sottosuolo è ricco: diamanti, oro, ferro, ferro, bauxite. I diamanti in particolare costituiscono da soli quasi un terzo di tutte le esportazioni, ma la loro filiera è controllata quasi del tutto da compagnie straniere e moltissimi esemplari vengono venduti sul mercato nero: una prassi inaugurata dai “conflict diamonds” dei vari signori della guerra africani, e mai del tutto terminata.