Sergio Moro (foto LaPresse)

Anche il Brasile ha il suo Davigo

Angela Nocioni

L'intervista-manifesto di Sergio Moro, il giudice che ha condannato Lula: difesa delle intercettazioni e del carcere preventivo, attacco alla classe politica che non combatte la corruzione. E intanto il suo gradimento cresce nei sondaggi

Sergio Moro, 43 anni, giudice di primo grado della procura della Repubblica di Curitiba, simbolo mediatico dell’inchiesta Lava Jato - la Mani pulite brasiliana che con arresti spettacolari in serie sta ridisegnando l’assetto politico del Paese - prodigo di lodi verso Piercamillo Davigo e col personale mito di Antonio Di Pietro, famoso per aver condannato tre settimane fa l’ex presidente Lula da Silva a nove anni e e mezzo di carcere per corruzione e riciclaggio, martedì ha aperto un nuovo processo contro Lula (è il sesto a carico dell’ex presidente).

 

Le accuse sono molto simili a quelle per cui lo ha appena condannato. Si tratta sempre di una casa vicino a San Paolo messagli a disposizione da una grande azienda, sospetta Moro, in cambio di contratti di favore. Stavolta non un appartamento sulla costa, ma una casa di campagna. La denuncia della pubblica accusa accolta da Moro parla di una ristrutturazione del valore di 280 mila dollari pagata interamente dalle imprese di costruzione Odebrecht, Oas e Schahin, in cambio di contratti con l’impresa petrolifera statale Petrobras. La villa è frequentata dalla famiglia di Lula, ma non è di sua proprietà. Lo sarebbe “di fatto” secondo i pm.

Secondo l’avvocato Zanin Martins le accuse “si riferiscono a contratti firmati da Petrobras che lo stesso giudice ha riconosciuto, in un’altra sentenza, non aver portato nessun beneficio a Lula”.

 

Prima dell’apertura del nuovo processo, Sergio Moro ha rilasciato una lunga intervista al quotidiano “Folha de Sao Paulo”. Un’intervista-manifesto. Questi i passaggi principali.

Dice Moro: “Purtroppo io vedo l’assenza di vigore da parte delle autorità politiche brasiliane contro la corruzione. Rimane l’impressione che la lotta contro la corruzione sia un obiettivo unico ed esclusivo di poliziotti, pm e giudici”. Alle critiche per aver accordato benefici a colpevoli prima ancora che firmassero il contratto di “delação premiada”, spesso scarcerazione immediata o rinuncia a procedere giudiziariamente in cambio della denuncia a carico di terze persone, Moro risponde che “il diritto non è una scienza esatta”.

 

Rivendica anche l’intercettazione nel 2016 della telefonata, poi resa pubblica, tra l’allora presidente della repubblica Dilma Rousseff e Lula da Silva, in cui i due parlavano della nomina pronta per Lula per farlo entrare nel governo. “La gente aveva diritto di conoscere il contenuto di quel dialogo” sostiene Moro.

Il giornalista della Folha gli ricorda che alcune sentenze della Lava Jato non si basano su documenti. Gli chiede conto della “condanna di Lula, secondo la quale i benefici ottenuti dall’ex presidente avrebbero come unica spiegazione la corruzione nella Petrobras”.

 

Moro si nasconde dietro l’elogio della prova indiziaria: “Tutto quello che volevo dire su quel processo sta scritto nella sentenza. Esistono sia la prova diretta sia la prova indiretta, ossia la prova indiziaria. Per rimanere nell’esempio classico: un testimone che vede un omicidio offre una prova diretta. Un testimone che non ha visto l’omicidio, ma ha visto qualcuno lasciare il luogo del reato con in mano un’arma fumante, offre una prova indiretta. Quella persona non ha visto il fatto, ma ha visto qualcosa da cui si deduce chi è il colpevole. Quando il giudice decide, valuta sia le prove dirette che quelle indirette, non c’è niente di straordinario in questo”.

 

Gli ricordano che il giudice del tribunale supremo Gilmar Mendes, grande nemico di Lula ma anche uno dei principali critici della Lava Jato, afferma che “la Lava Jato ha creato un diritto penale di Curitiba”, ha inventato “norme che non hanno nulla a che vedere con la legge”. Moro nega: “Qui non esiste nessun diritto straordinario. Per interrompere il ciclo dei reati era necessario prendere misure drastiche, per esempio l’uso della prigione preventiva”.

 

Gli ricordano che lui stesso ha fissato un tempo massimo di detenzione per processi che si dovevano ancora concludere contro tre imputati che stavano negoziando la delazione premiata. Gli avvocati hanno considerato la promessa del giudice Moro un incentivo indebito alla decisione degli accusati di collaborare con gli investigatori. “Io non sono entrato in nessuna negoziazione” risponde lui. Il giornalista insiste: “Come no, lei ha fissato una pena massima per tutti processi ai quali loro dovevano ancora rispondere”. Moro se la cava così: “E’ necessario capire che il diritto non è una scienza esatta. A volte persone ragionevoli possono avere opinioni diverse”.

 

Moro rivendica tutti gli “strappi” compiuti allo stato di diritto: benefici ai delatori, uso e abuso delle prove indiziarie e della prigione preventiva. “Non stiamo cambiando il diritto penale in nessun modo. L’inchiesta rivela semplicemente che l’impunità nei reati di corruzione non è più una regola di Brasile”. Dice di essere preoccupato perché vede all’orizzonte “la possibilità che arrivino misure legislative per ostruire il lavoro dell’accertamento della verità nei casi di corruzione. Vedo nel mondo politico una grande inerzia”. Il grande timore del colpo di spugna, lo evoca spesso.

 

Da notare che mentre lui parla con i giornalisti e scrive sentenze, vari istituti di sondaggio brasiliani diffondono risultati di inchieste di opinione secondo le quali Moro avrebbe un gradimento popolare in continua ascesa, ieri al 64%. A intervalli regolari ritorna a galla anche il sondaggio che lo dà come l’unico nome in grado di battere Lula al primo turno nelle presidenziali del 2018. Già, ma Sergio Moro è un giudice, non un candidato.