La vita dopo Nizza

Lucio d'Alessandro

I fuochi d’artificio e poi gli spari. Gionata, steso sulla Promenade des Anglais, per tutti è già morto quando si accorge di essere vivo. Più vivo che mai

La luce era bianca, bianca e accecante come una coltre chiara vagamente abbagliante che gli ricopriva l’intero corpo che, quasi, ne risplendeva come i pochi oggetti che intuiva d’intorno. La sensazione più singolare era che quella luce non gli provenisse dagli occhi che sapeva chiusi, spenti dal momento del terribile boato che aveva radicalmente mutato tutto: dopo, nessun rumore dal mondo di prima gli era più pervenuto, perché ogni cosa era rimasta oltre lo spesso cristallo o la vernice oleosa e grassa, o qualunque cosa fosse, che sigillava il mondo di prima separandolo totalmente da Gionata.

 

Tutto era cominciato qualche tempo prima – Gionata non era in grado di concepire il trascorrere del tempo in termini di giorni o di ore o in qualsiasi altra misura – nella Promenade des Anglais, il magnifico lungomare di Nizza, dove si trovava con Mafalda e la piccola Antonia mentre i francesi celebravano con coccarde e fanfare la loro festa nazionale. La serata era calda e festosa, con centinaia di persone che sciamavano nell’uno e nell’altro senso, inalando un profumo di mare particolarmente intenso, beandosi della brezza carezzevole e appena tesa che piegava a tratti la barba di Gionata e faceva sventolare la sciarpa di Antonia di cui Gionata, felice e orgoglioso, teneva la mano paffuta mentre la piccola infilava la faccina nella folla. Da lontano si erano accesi nel cielo, ormai scuro, i razzi della festa nei colori bianco rosso e blu della bandiera di Francia.

 

Proprio mentre tutti osservavano ammirati l’accendersi di un blu capace di brillare nel blu cupo del cielo, cominciò a sentirsi uno schiamazzo, voci sempre più concitate e, forse, un rumore secco di spari. Gionata vide distintamente avvicinarsi il grande camion, altissimo e scuro, travolgendo a folle velocità povere vittime urlanti di cui, come in una serie velocissima di fotogrammi, vide il sangue sgorgare dai corpi. Gettò da parte con una spinta fortissima la piccola Antonia che d’istinto si stringeva a lui. Mentre la bambina cadeva di lato fortunatamente qualche centimetro fuori dalla portata di quel carro armato di morte, Gionata non riuscì a scansarsi del tutto. Un colpo secco, come sparato all’apice del suo cervello dal parafango del mostro, fece esplodere il suo dolore: contemporaneamente scoppiò un assordante rumore di vetri e catene travolte, frantumati in innumerevoli schegge che rotolarono per qualche secondo nella sua povera testa mentre la sua coscienza di uomo si interrompeva, ma con qualche lentezza, come una goccia di rugiada prosciugata da una fiamma improvvisa.

 

Pensò subito di essere morto, anche perché nel giro di qualche attimo il terribile dolore scomparve, così anche il rumore e ogni visione del mondo. Certo i suoi occhi non vedevano più nulla, mai più, pensò, avrebbero visto nulla, mai più… eppure, eppure pensava, si accorgeva anche di respirare piano e sapeva pure, senza vederlo o sentirlo, quello che accadeva intorno a lui. Avvertì, dunque, come da una sua pace riposta e senza luogo, beata e quasi indifferente, le grida strazianti e le mille sirene e, ancora, altri spari. Sentì distintamente il pianto e la carezza di Antonia, poi quella di Mafalda che lo pensavano morto ma lo volevano vivo, mentre egli non era in grado di comunicare nulla della sua vita languente e dei sentimenti come ovattati, eppur vivi, che provava per tutti coloro che si trovavano dall’altra parte del muro che si ergeva tra lui e il mondo di prima. Quel mondo dal quale era ormai segregato ed escluso, ma a cui sentiva di non smettere di appartenere.

 

Gionata stette fermo a lungo nello stesso luogo probabilmente accanto ad altri morti. Sentì, intuì, immaginò – non sapeva dirlo – un litigio a voce alta tra Mafalda che, in cattivo francese, chiedeva cure per lui e un poliziotto di colore che in un francese quasi altrettanto cattivo cercava di allontanarla dal corpo facendole capire che, certo, avrebbero provveduto, anche se… Sì, insomma, c’era gente davvero ferita per la quale bisognava lavorare, perché per loro vi era speranza che sopravvivessero. Gionata conosceva Mafalda sicché non si meravigliò delle sue grida disperate e nemmeno dei pugni violenti che cominciò a vibrare sul giubbino antiproiettile del poliziotto, mentre Antonia continuava a carezzarlo, quasi come se niente fosse accaduto. Forse fu proprio per effetto di quelle carezze, cui il suo corpo non poteva essere insensibile, che qualcosa dovette muoversi per qualche istante sul viso di Gionata. Per poco Mafalda non spiaccicò la testa con tanto di elmetto del poliziotto sulla faccia di Gionata per fargli vedere qualche impercettibile movimento. Poi arrivarono i medici, l’ambulanza…

 

Quanto tempo era passato? Gionata non lo sapeva. Forse giorni, forse settimane, forse addirittura mesi, non certo qualche ora soltanto, perché nel frattempo, gli era apparso chiaro, pur senza sentire lingue e suoni, che il suo corpo non era più in Francia ma si trovava in Italia dove dovevano averlo trasportato. Quello che non era cambiato era quasi tutto il resto: anzitutto il ronzio delle macchine a cui avvertiva di essere attaccato, poi il pensiero dei medici, che dovevano avere facce diverse, qualcuno più giovane, qualcuno più vecchio, parecchi erano donne, e pensavano che tutto fosse inutile, che Gionata fosse in realtà già virtualmente morto e che tutte quelle cure fossero uno spreco e solo un ulteriore strazio per quel corpo in stato vegetativo. Qualcuno lo pensava con fastidio, qualche altro con pena per lui o per Mafalda che veniva puntualmente a vederlo, ma tutti pensavano più o meno la stessa cosa.

 

Si trattava, insomma, di un inutile costoso accanimento terapeutico che impediva a Gionata di concludere finalmente una giornata ormai priva di speranza alcuna, e a tutti di tornare a occupazioni più utili.

 

Eppure per Gionata non era così. Non soffriva, non aveva percezione alcuna di dolore o di piacere che gli pervenisse dal corpo, sapeva soltanto che esso c’era, immobile, ma caldo, e attaccato alle macchine, sapeva anche che continuavano a crescergli capelli e barba. Si accorgeva, pur senza avvertirlo fisicamente che, di quando in quando, la piccola Antonia ci giocava inanellandone i fili come i ricci dei suoi capelli. Inoltre Gionata pensava. Certo, da un’enorme distanza, ma pensava, e pensava anche alle cose che accadevano attorno a lui, quei medici gli facevano parecchia paura. Poi ricordava, o, forse, era qualcosa di più del ricordare perché era se come tutta la sua vita gli fosse continuamente presente, come se disponesse di una qualche tastiera da cui fare emergere qualsiasi momento del passato, anche quelli che apparentemente non erano mai stati nella sua memoria. Rivide così perfino la sua nascita in casa (allora si nasceva ancora così) con la levatrice grossa e un po’ maschile che lo levava in alto annunciando trionfalmente “è un maschio, è bello assai”. In effetti, a essere sincero, guardando la scena, non gli pareva affatto così: tuttavia la sua faccia arrossata e piangente lo commuoveva. Rivide anche la casa della sua nascita con una terrazza ventosa a scompigliare i lunghi capelli di sua madre e la larga vestaglia a kimono dentro la quale difendeva dalla brezza di mare il cucciolo appena nato.

 

Poteva perfino scegliere i ricordi a seconda del sentimento “di prima” – ma evidentemente anche “di adesso” – che voleva provare. Così, per concedersi un sorriso, rivide una scena della sua maturità classica. Il presidente della Commissione era un autorevole professore universitario in pensione a cui tutti facevano grandi ossequi ma a loro ragazzi pareva che guardasse con troppa insistenza le forme delle ragazze, specie quelle un po’ più in carne. Così, in una mattinata di orali, nel caldo di luglio, Gionata aveva chiesto a Gelsomina, la più formosa delle compagne, di piazzarsi con la sua minigonna nella prima fila di banchi. Gionata era accanto a lei, e quando fu sicuro che lo sguardo dell’anziano maestro di storia si fosse fissato proprio su quel ben di Dio di gambe e ginocchia, con un gesto improvviso vi stese un grande fazzoletto guardando il professore, perfino puntandogli il dito come in segno di rimprovero. Il vecchio, evidentemente scoperto nel suo piccolo vizio, ebbe un gesto di disappunto prima di distogliere lo sguardo. Ma tutti sapevano della trappola, sicché la risata fu generale, e il povero maestro della storia moderna ne risultò alquanto scornato. Però gli esami andarono bene lo stesso…

 

Col tempo, insomma nel tempo, Gionata si accorse anche di avere, forse, qualche impalpabile possibilità di comunicare con l’esterno. Così quando un’infermiera gli strappò il catetere in maniera sgraziata, pensando di dover lavorare inutilmente intorno al “coso” di un morto, la sentì dirsi “vedi a questo, è morto, tiene gli occhi chiusi e pare che ti vuole fare una cazziata ogni volta…”. Gionata trovò la cosa divertente.

 

Divertente fu anche il primo gesto di risveglio, in presenza della stessa infermiera, che si accorse, mentre gli tergeva il viso, che Gionata lasciava uscire dall’angolo della bocca una piccola punta di lingua. Poteva mai essere? Cacciava la lingua? Era una sua impressione? La donna aveva continuato a osservarlo, poi si decise a parlarne con altri ma il fenomeno non si ripeteva. Nell’ospedale, avvertiva Gionata, l’episodio del “morto” che cacciava la lingua all’infermiera notoriamente scortese diventò una vera e propria favola. Perché poi accadde di nuovo e, di nuovo, proprio con lei.

 

Meraviglioso fu l’attimo in cui avvertì finalmente la carezza di Antonia e si accorse che la sua barba era reale e cominciò ad avvertire dolore e poi calore e poi suoni e, infine la luce. Tornò un poco alla volta alla vita ma non raccontò quasi niente a nessuno di quello che aveva vissuto, vissuto? Lui stesso non sapeva se era stato sempre vivo o era morto per qualche tempo. Quel che era certo è che, oltre quello specchio, si era trovato in un’altra vita che, tutto sommato, non era neppure male, forse, chissà, di là in quello spazio orizzontale immenso, aveva incontrato perfino la traccia di Dio, non sapeva dirlo.

 

Invero non era neppure male la vita che gli toccava adesso: si era svegliato nel periodo di Natale e il Natale a Gionata piaceva tanto, poi a Napoli con i pastori, c’era di che piangere dalla gioia. Spinto da Mafalda, Gionata ritenne doveroso inviare almeno un dono natalizio al personale dell’ospedale che lo aveva accudito con professionalità e competenza. Un regalo speciale fatto con l’aiuto di una gloriosa cioccolateria artigianale napoletana che preparò una confezione specialissima per lui, l’ormai famoso “morto resuscitato” dell’attentato di Nizza.

 

Quella mattina un camioncino della “premiata pasticceria Cocozza” scaricò per medici e infermieri dell’ospedale sulla collina di Napoli un centinaio di scatole di cioccolatini. Il coperchio della scatola recava in bella vista una foto di Gionata con una enorme lingua di fuori. Gionata ne era stato compiaciuto: sembrava Einstein!

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