Theresa May (foto LaPresse)

A un anno dal suo arrivo, la May non ha voglia di festa

Paola Peduzzi

La leader dei conservatori britannici chiede aiuto al Labour per gestire la Brexit

Milano. Questa avrebbe dovuto essere una settimana di festa per il premier britannico Theresa May. Un anno fa l’ex ministro dell’Interno veniva nominata premier, dopo che David Cameron si era dimesso in seguito all’esito del referendum sulla Brexit e dopo che tutti i candidati alla leadership dei Tory si erano in qualche modo eliminati da soli. La May, che aveva fatto una campagna blanda contro la Brexit, restò l’unica nominabile, e assunse l’incarico con molta determinazione e una buona dose di cattiveria, estromettendo i colleghi nemici dall’esecutivo e facendosi carico del mandato popolare di gestire la Brexit. Allora molti erano perplessi, ma per molti mesi la May lavorò sulla propria leadership e su un’idea di Brexit liberale e promettente, giocando sul fatto che l’apocalisse annunciata dai sostenitori del “remain” non si era infine verificata.

 

Quando ad aprile la May annunciò, a sorpresa, il voto anticipato, il suo capitale politico era enorme, e la spavalderia dei brexiteers era alle stelle. Poi si sa come è andata: alle elezioni dell’8 giugno scorso la May ha perso la maggioranza in Parlamento, l’opposizione del Labour si è rafforzata, Jeremy Corbyn è diventato una star, gli europei si sono scoperti straordinariamente puntigliosi e attenti a non concedere troppo all’indebolita May. Per questo questa settimana il premier britannico ha poco da festeggiare, semmai ha deciso di rimboccarsi le maniche, di mettere da parte le rivalità, e di provare a far sopravvivere la propria leadership assieme alla Brexit.

  

Oggi è previsto un grande discorso della May in cui chiederà al Labour di togliersi i panni dell’ostilità e di collaborare con il governo: “Non soltanto critiche, ma un lavoro collettivo”, proporrà il premier, ritrovando toni concilianti che non le appartengono molto, dal momento che fino a qualche settimana fa i laburisti erano soltanto boicottatori spendaccioni pronti a trascinare il Regno Unito nel declino. Ora il declino invece è una faccenda che riguarda un po’ tutti nel paese: i dati economici scricchiolano e i toni promettenti hanno lasciato spazio a quelli isolazionisti, complice anche un’Europa che ha deciso di non subire la Brexit, di farsi trovare pronta, lasciando il conto da pagare agli inglesi.

 

L’appello al Labour è letto da molti, dentro al Partito conservatore, come una resa: non riuscendo a gestire i tentativi di golpe, la May sceglie di far patti con l’opposizione, provando a garantirsi così la salvezza. Il toto-sostituto varia di intensità e di preferenza, fino a qualche giorno fa il cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond sembrava l’unico in grado di prendere il posto della May, mentre nelle ultime ore ha preso quota la candidatura del ministro per la Brexit David Davis: il tasso di rivalità interna è talmente alto – il “nasty party” è di nuovo qui, al suo peggio – che fare previsioni risulta difficile, e comunque pare che la resa dei conti sia rimandata alla convention di partito in autunno (ma nessuno esclude sorprese estive).

 

Intanto gli anti Brexit si sentono forti e insistono sul concetto blairiano del “cambiare idea”: il magazine New European (che compie un anno anche lui: qui sotto pubblichiamo un articolo di uno dei più vivaci combattenti anti Brexit, Alastair Campbell. Si occupa di rugby qui, ma non perde occasione per ribadire che le sconfitte devono insegnare qualcosa, e che la bellezza del Regno Unito è anche la sua partecipazione al mondo, l’isolazionismo è un disastro) anima il dibattito, cercando di dare forma a un movimento che considera plausibile un passo indietro rispetto alla Brexit.

 

Anche in Europa molti credono che alla fine questo divorzio non si farà, o sarà talmente diluito nel tempo che, per inerzia unitaria, non sarà poi così brutale. Mentre il Parlamento europeo gioca il ruolo del poliziotto cattivo pubblicando lettere in cui dice che non si accetteranno accordi che trattano i diritti dei cittadini europei in modo peggiore rispetto a quel che accade ora, i conservatori si spaccano. C’è chi vuole andare avanti con la Brexit, mangiate la pillola e non fate i capricci, e chi invece pensa che l’apertura al Labour non sia poi così tremenda: non si può pensare di gestire un evento di questa portata senza un minimo di unità (con questi numeri in Parlamento poi). Soprattutto: questa è l’occasione per mostrare tutte le contraddizioni interne al Labour, rigettando dall’altra parte del campo la famigerata palla dell’ambiguità. Quel che propone la sinistra infatti non è poi così fattibile, e soprattutto è comunque una Brexit, non certo un “cambiare idea”.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi