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L'Europa vuole essere il nuovo polo global del G20

Alberto Brambilla

Merkel assume la guida della nuova globalizzazione in aperto conflitto con Trump, che continua a sventolare la sua guerra commerciale

Roma. Le visioni concorrenti e opposte sul commercio internazionale sono in rotta di collisione al G20 di Amburgo, sede di uno dei porti più trafficati al mondo. L’approccio protezionista del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, dietro lo slogan “America first”, contro quello dell’Unione europea, che ha appena concluso con il Giappone uno degli accordi commerciali più grandi di sempre che darà a entrambe le parti un migliore accesso a industrie rilevanti, meccanica e automobilistica in testa. Un simbolo potente della vocazione liberoscambista europea che si aggiunge all’accordo già siglato tra Canada e Ue e in via di ratifica da parte degli stati membri, tra le polemiche in Italia.

   

La cancelliera tedesca, Angela Merkel, ha compiuto un consapevole gioco d’azzardo nell’ospitare il vertice (oggi e domani) nella seconda metropoli tedesca più popolosa, e sua città natale, oggetto di proteste potenzialmente violente in occasione di un G20 percepito come indispensabile. Merkel ha l’occasione di ricordare al mondo che Amburgo, terzo porto d’Europa, è simbolo degli alti e bassi della globalizzazione commerciale da secoli. I commerci tra Europa e Stati Uniti sono cominciati nel 1783 quando la nave Elise Katharina attraversò l’oceano Atlantico verso Charleston e Philadelphia partendo proprio dal porto di Amburgo. E’ sulla stessa rotta che la ricetta della bistecca amburghese arrivò negli Stati Uniti all’inizio dell’Ottocento, tramandata da immigrati tedeschi, per diventare l’hamburger che oggi fa la fortuna delle multinazionali americane di fast food. L’èra dei container navali cominciò al terminal Burchardkai nel 1967. Oggi il 98 per cento dei carichi commerciali passa in quelle “scatole” che hanno reso “piccolo e grande il mondo” (copyright Bill Gates). Il ministro degli Esteri tedesco, Sigmar Gabriel, in una intervista radiofonica, ha detto che la prossima volta “sarà un simbolico passo avanti” se a ospitare il G20 sarà New York, città imperiale d’America e casa del maverick Trump ai ferri corti con Berlino.

   

Portare venti nazioni su posizioni comuni pare impossibile. I diplomatici tedeschi parlano di un “summit completamente imprevedibile”. E’ possibile che nel comunicato finale, risultato delle discussioni, l’impegno al “libero scambio” sia sostituito da “onesto libero scambio” per compiacere Trump che ritiene l’America bistrattata. Fonti del Foglio non escludono che Trump farà un annuncio a effetto sulla falsariga dell’abiura degli accordi di Parigi sui cambiamenti climatici al G7 di Taormina dello scorso maggio. D’altronde le avvisaglie di un aperto conflitto commerciale con l’Europa a trazione tedesca proseguono da tempo. L’Amministrazione Trump aveva accusato la politica monetaria della Banca centrale europea di manipolare l’euro per favorire le esportazioni tedesche e italiane e aveva minacciato in modo scenografico di imporre dazi punitivi a iconici marchi come la Vespa Piaggio e altri novanta prodotti made in Europe. Tuttavia il surplus commerciale europeo deriva principalmente dai paesi a vocazione esportatrice come Italia e Germania non perché la valuta sia manipolata quanto perché è la struttura industriale di quei paesi a motivare un export elevato di prodotti comprati in tutto il mondo.

    

Le dispute aperte tra Washington e Berlino sono così numerose da rivelare un’escalation. Il dieselgate contro Volkswagen, sanzioni a Deutsche Bank, la recente minaccia di sanzionare le società che finanziano il gasdotto russo-tedesco Nord Stream 2. Speculari sono le accuse tedesche all’intrusione del capitalismo digitale americano di Facebook e Google, quest’ultima sanzionata dalla Commissione Ue a giugno. Secondo indiscrezioni del sito web Axios, Trump è favorevole a una “guerra commerciale” che “amerebbe combattere”. Trump sarebbe incline a imporre barriere tariffarie all’importazione di acciaio in chiave di rappresaglia verso i paesi profittatori per difendere i posti di lavoro americani, autorizzando altre nazioni a comportarsi allo stesso modo. Gli Stati Uniti sono il principale importatore di prodotti siderurgici da 110 paesi, la Germania è tra i primi, secondo il dipartimento del Commercio.

   

Lo scorso 17 giugno al Council for United States and Italy a Venezia si è parlato molto della politica commerciale mondiale e c’è stato un confronto anche acceso tra italiani ed europei, da un lato, ed esponenti vicini all’Amministrazione Trump, dall’altro, che invitavano a prendere atto dell’inedita postura assertiva degli Stati Uniti. La visione di Trump pare essere quella di un gioco commerciale dove vince solo una parte mentre gli altri perdono, mutuata dalla abitudine agli affari immobiliari in cui la spunta il più forte. All’opposto Merkel ha detto alla Zeit che “mentre cerchiamo una possibilità di cooperazione di cui beneficerebbero tutti, la globalizzazione è vista dalla Amministrazione americana come un processo che non riguarda una situazione win-win ma che prevede vincitori e perdenti”. Se Trump intende invertire un processo dato come l’interdipendenza di blocchi commerciali rischia di peggiorare le condizioni di chi è rimasto indietro con la rapida crescita dei commerci: ravvivare le industrie ad alta intensità di capitale non è una scommessa politica a esito positivo certo perché impiegano meno posti di lavoro rispetto ad altri settori, come i servizi.

   

Fino all’anno scorso l’Europa era flemmatica verso nuove alleanze ed era considerata dagli investitori alla stregua di una palude. L’accordo commerciale Ue-Giappone per creare un’area di scambio paragonabile a quella del Nafta (Stati Uniti, Canada, Messico), che Trump vuole ridefinire, era in discussione dal 2013 e di recente il processo è stato accelerato fino agli accordi conclusivi di ieri. L’Europa ha superato la regione dell’Asia-Pacifico come meta favorita di investimenti esteri, non accadeva da tre anni. Paradossalmente la bellicosa posizione americana ha funzionato da incentivo per l’Europa a porsi come polo della globalizzazione, un ritorno alle antiche glorie amburghesi.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.