Trump e Merkel al G20 di Amburgo (foto LaPresse)

Al G20 va in scena lo "stallo alla messicana" tra Merkel, Trump e Xi

Marco Cecchini

Difficile trovare un accordo anti protezionista, ma l’America First ha già costretto altri paesi ad aprirsi

Amburgo. Quello in corso al G20 di che si chiude oggi è una specie di stallo alla messicana in terra tedesca. Nello stallo alla messicana i duellanti si guardano con livore negli occhi, pronunciano parole minacciose, ma nessuno spara un colpo vero perché teme la reazione degli altri. Benvenuti nel mondo in cerca di una leadership, dopo che Donald Trump con “America First” sembra avere rinunciato a guidarlo e i suoi potenziali successori non sono ancora pronti (o non vogliono) sostituirlo.

 

Angela Merkel è arrivata sulle rive dell’Elba preceduta da un incontro con i colleghi europei per compattare il suo “fronte” e annunciata da un’intervista alla Zeit nella quale ha ribadito tutte le posizioni indigeste per Washington su commercio, clima e globalizzazione, ammettendo nel contempo che il summit tenterà la “quadratura del cerchio”.

 

Trump, sulla via del G20, ha fatto tappa a Varsavia (Polonia) dove ha incontrato il leader di un paese i cui rapporti con Berlino sono in caduta libera e che cerca protezione militare contro la sempre verde minaccia dell’Orso Russo. Una piccola provocazione. Vladimir Putin in un’intervista al quotidiano tedesco Handelsblatt, alla vigilia del suo primo faccia a faccia con Trump, ha detto di condividere le priorità di Merkel. Non proprio un segnale di amicizia per The Donald. Xi Jinping, infine, prima di atterrare ha ammonito Trump che “così finirà per perdere la leadership”, alludendo a tutto il contenzioso sino-americano sul Mar cinese meridionale, le questioni di Taiwan e della Corea del Nord e via dicendo. Stallo alla messicana, appunto. Provocazioni e calorose strette di mano condite da misurate dichiarazioni di facciata dopo gli incontri bilaterali.

 

Non ci saranno vincitori né vinti nella città desertificata dalle manifestazioni anti global. “Il comunicato finale conterrà molte parole ma pochi fatti”, prevede Simon Evenett, membro del T20, il think tank di esperti ed accademici indipendenti che lavora a lato del G20, e presidente di Global Trade Alert, uno dei maggiori centri di ricerca sul commercio internazionale. E la stessa cancelliera ha ammesso ieri che tutti sono per il mercato aperto, “ma le discussioni sono molto difficili e gli sherpa dovranno lavorare”. Un quadro analogo a quello tracciato dal presidente del Consiglio italiano, Paolo Gentiloni, per il quale la crescita mondiale “al 3,5 per cento è minacciata dal rischio di contagio delle tendenze protezionistiche”. Urge quadratura del cerchio insomma.

 

Del resto, se al G7 lo schema di gioco ha finito per essere tutti contro uno, al G20 ci sono troppi attori sulla scena per mettere nell’angolo il presidente Stati Uniti. Arabia Saudita e Turchia, per esempio, non entreranno mai in rotta di collisione con gli Stati Uniti e la stessa Cina ha troppo bisogno delle tecnologie americane per permettersi un eccesso di tensione con Washington.

 

Sui temi clou del vertice dunque gli sherpa, tra cui l’ambasciatore Raffaele Trombetta per l’Italia, produrranno un documento finale accettabile per tutti, quindi piuttosto annacquato viste le posizioni di partenza. Ma la delusione di Angela Merkel sarà relativa, perché la cancelliera oggi punta soprattutto ad evitare bagni di sangue nelle piazze della città affollate di black bloc e a ribadire le parole d’ordine gradite ai tedeschi che a settembre andranno a votare. Sotto la superficie delle acrobazie diplomatiche, tuttavia, la realtà muove le sue pedine in modo imprevedibile. Una di queste riguarda la questione del libero scambio che per il G20 è stato sempre una priorità.

  

Simon Evenett dice che “nei primi sei mesi dell’anno le misure restrittive degli scambi prese dagli Stati Uniti verso i partner del G20 sono aumentate del 26 per cento, in particolare con una intensificazione del Buy American”. Il contrario di ciò che dovrebbe accadere per quanti pensano che Trump sia un cane che abbaia ma non morde. Ma ancora più sorprendente è la circostanza che “l’aumento delle misure restrittive all’import Stati Uniti prese dal resto dei paesi del G20 nel suo complesso si è ridotto del 29 per cento”. La svolta “ha interessato in particolare Russia India, Brasile e Indonesia”, ovvero i paesi emergenti che in passato avevano alzato le maggiori barriere verso l’export americano. “Francia, Germania, Italia, Giappone e Canada viceversa hanno incrementato le restrizioni, in particolare sotto la forma di sussidi e incentivi nascosti nelle pieghe dei contratti all’acquisto di prodotti domestici”. La Francia, “spinge gli acquisti di auto nazionali usando abilmente le regole sulla protezione dell’ambiente. Germania e Italia hanno introdotto nei contratti sugli investimenti in infrastrutture clausole che favoriscono l’acquisto dei materiali da imprese domestiche”. Evenett sospetta che questa condotta dei paesi emergenti sia il riflesso positivo dell’“effetto Trump”: “I dati dicono questo, perché non ci sono altri motivi per spiegare la svolta”.

 

The Donald in altre parole sarebbe riuscito a realizzare quello in cui il G20 in anni di lotta verbale al protezionismo non era riuscito. Se è vero come è vero che “dal 2008 i paesi del gruppo hanno introdotto 11 mila misure protezionistiche e oggi tre quarti delle esportazioni dei paesi membri sono colpiti da restrizioni”. Il che conferma che la gloriosa storia di questo foro di dialogo, avviata all’indomani della crisi finanziaria del 1998, si è quanto meno appannata.

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