Salman Abedi alla Manchester Arena poco prima di compiere l'attentato al concerto (foto LaPresse)

Come si aggiorna una lista di probabili terroristi? Costi, errori e il sensazionalismo inutile

Daniele Raineri

Così funzionano gli elenchi degli stragisti. Dati buoni, criteri che cambiano e i costi dei controlli

A questo punto il problema terrorismo riguarda le liste compilate dai servizi antiterrorismo. Come funzionano? E cosa te ne fai di tutti quei nomi, se poi non riesci a bloccare le stragi prima che avvengano? Non esiste una sola lista di sospetti terroristi, ce ne sono tanti tipi, spiega Margaret Gilmore, un’esperta del Rusi (un think tank di Londra) alla Bbc. Alcune sono compilate grazie all’osservazione di comportamenti specifici. Per esempio, giovani inglesi che comprano biglietti aerei per andare in Turchia – da dove poi era facile, negli anni scorsi, scavalcare il confine per entrare in Siria e arruolarsi nello Stato islamico. Ovvio che non tutti gli inglesi che vanno in Turchia lo fanno perché vogliono combattere il jihad e quindi questa lista è molto lunga. “Però tutti i giovani che s’imbarcavano da soli per l’aeroporto di Istanbul erano bloccati”. Le cifre aggiornate a quest’anno dicono che circa 800 inglesi sono andati a combattere in Iraq e Siria e di questi 400 sono tornati. Altri seicento ci hanno provato e sono stati fermati prima. Il numero dei volontari che tentano di partire dal Regno Unito oggi è crollato quasi a zero, un po’ perché è più difficile dal punto di vista tecnico e un po’ perché non sono più gli anni gloriosi dell’espansione dello Stato islamico.

 

Poi c’è una lista specifica di estremisti che abitano in Gran Bretagna, con ventimila nomi che sono divisi in due sottoliste. Quella più lunga contiene soggetti che non sono tenuti d’occhio di continuo, ma soltanto se c’è qualche elemento che non torna: se si allontanano dai loro luoghi abituali, se fanno scattare qualche segnalazione, se commettono reati. Salman Abedi, lo stragista di Manchester, ci era finito ma poi non aveva fatto scattare il monitoraggio più stretto. Quella più corta, di circa tremila soggetti, è quella che fa preoccupare il MI5, l’intelligence interna inglese – è la lista dei sottoposti a sorveglianza regolare, anche se c’è da tenere in considerazione che la ratio per una buona operazione di monitoraggio prevederebbe venti agenti per ogni sospetto e quindi il controllo totale è pura utopia. 

 

Senza contare altre difficoltà, come per esempio è capitato a Bruxelles, dove i poliziotti che intercettavano i membri di una cellula terrorista si sono arresi quando quelli sono passati dal francese all’arabo: e chi ce li ha tutti questi traduttori in simultanea?

 

In Francia la lista più citata sui giornali è la “fiche S”, che sta per Sûreté de l’État e segnala la massima pericolosità di un soggetto a piede libero: più di così e scatta l’arresto. La lista S consente le intercettazioni telefoniche e anche l’installazione segreta di un congegno Gps sull’auto per seguire gli spostamenti dei sorvegliati. La stragrande maggioranza degli attentatori francesi era su quella lista, che però ha una validità di due anni: se il sospetto non è più considerato pericoloso non è inserito in quella successiva e questo crea delle polemiche (perché i maniaci sessuali sono segnati a vita e i potenziali terroristi no, ci si chiede?). Nel 2012 una nota del ministero dell’Interno diceva che la lista conteneva circa cinquemila nomi, ma nel 2016 il primo ministro Manuel Valls ha aggiornato la cifra a ventimila, di cui 10.500 islamisti.

 

In America le liste sono ancora più complicate e lunghe. I federali dell’Fbi ne hanno una loro, la watch list del Terrorism Screening Center, che è partita nel 2003. Lo stragista di Orlando, Omar Mateen, c’è finito dentro per dieci mesi perché si vantava con i colleghi di avere contatti con al Qaida, ma poi è stato tolto. “Non possiamo investigare tutti per sempre”, aveva detto l’allora direttore dell’Fbi, James Comey, quando era venuto fuori che Mateen aveva fatto shopping di armi pur avendo alle spalle questa segnalazione di pericolo. Un’altra lista è il Tide, Terrorist identities datamart environment, che nel 2013 conteneva un milione e centomila nomi – inclusi anche nomi di morti se si sospetta che i terroristi potrebbero usarli. Ora è probabile che ne contenga di più, divisi in quattro sottoliste: codice 4 è quella meno pericolosa, codice 1 quella più pericolosa (ma contiene pochi nomi, un centinaio). La Tide è la lista usata dal dipartimento di Stato per decidere se concedere o no un visto d’ingresso e dalla sicurezza negli aeroporti per compilare un’altra lista molto nota, quella dei passeggeri che non possono volare, la “no fly list” e anche quella dei passeggeri che devono essere controllati con molta cura.

 

Queste liste sono scambiate tra paesi alleati e questo spiega perché il giorno dopo la strage di Manchester i siti di news americani facevano gli scoop e quelli inglesi no: le fonti della sicurezza americana passavano le informazioni ricevute da Londra ai giornalisti americani. Ma è un meccanismo imperfetto: il marocchino Youssef Zaghba, stragista di Londra sabato scorso, che aveva provato a partire dall’Italia per la Siria nel marzo 2016, era sulla lista dell’intelligence italiana ma non su quella inglese, anche se gli italiani avevano mandato parecchie segnalazioni ai colleghi di Londra e di Rabat. Le liste stanno diventando uno strumento predittivo più raffinato con il passare degli anni. I quattro attentatori che si fecero saltare a Londra nel 2005 erano dei perfetti sconosciuti per il governo inglese. Negli attacchi successivi, a Woolwich nel 2013, e Westminster, Manchester e London Bridge quest’anno, i sospetti erano sulle liste (tranne il marocchino Rachid Redouane). Ma ancora non s’è capito – oppure non s’è ancora deciso – come farle funzionare davvero.

 

I giornali per ora continuano a fare finta di stupirsi dopo gli attentati che i loro autori siano già presenti nelle liste degli individui pericolosi perché è un’informazione che viene bene per fare i titoli – “Era già su una lista di soggetti a rischio!”. Ma è un fatto naturale: questo tipo di fanatismo che richiede agli adepti di suicidarsi è difficile da mascherare per anni ed è quasi impossibile da comprimere all’interno della testa. Presto o tardi trapela, fa scattare segnali d’allarme. Un post che inneggia allo Stato islamico su Facebook, un litigio in moschea con l’imam che predica un islam troppo mainstream, una foto oppure un video compromettente archiviati sul telefonino, un biglietto aereo comprato per la Turchia. Lo Stato islamico non ha agenti segreti perfetti, non dispone di gente capace di reggere una copertura e di vivere una normalità indecifrabile, e se ne ha ne ha molto poca: tutti gli altri sono agenti imperfetti, si erano già fatti beccare in qualche modo.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)