Cina, allerta smog a Pechino (foto LaPresse)

Il CO2 è politica. Pechino lo dimostra

Eugenio Cau

Da potenza contraria a ogni accordo sull’ambiente oggi la Cina è in prima linea. Cos’è cambiato?

Roma. Nemmeno dieci anni fa, la Cina era il più grande oppositore al mondo su qualunque accordo climatico a livello internazionale. Non solo, era una potenza in un certo senso negazionista, in quanto nella rete stretta della censura di stato per anni è stata consentita la circolazione di libri, pamphlet e programmi televisivi che descrivevano le teorie sul cambiamento climatico come un complotto degli americani per frenare e contenere la crescita economica della Cina. Ieri, al contrario, il premier cinese Li Keqiang era a Bruxelles attorniato dai leader dell’Unione europea a lanciare appelli contro la decisione dell’Amministrazione Trump di ritirare l’America dagli accordi sul clima siglati a Parigi nel 2015. Il giorno prima, insieme alla cancelliera tedesca Angela Merkel, Li ha dato prova della nuova guida climatica del mondo, ora che l’America si è tagliata fuori da sola: Cina ed Europa, unite per riempire i vuoti di leadership lasciati da Washington.

  

In pochissimo tempo, la politica ambientale cinese si è rivoltata come un calzino. Da potenza contraria a ogni azione sul clima la Cina si è trasformata prima in un sostenitore tiepido delle riforme green e poi, negli ultimissimi mesi, nel padrino politico di ogni iniziativa internazionale volta a ridurre gli effetti dell’uomo sull’ambiente, in primis l’accordo di Parigi. E’ celebre il modo in cui, nel 2009, la Cina fece fallire gli accordi di Copenaghen, precursori di quelli di Parigi, trattando sottobanco con gli altri paesi in via di sviluppo e umiliando l’allora presidente Obama e il suo segretario di stato Hillary Clinton. In quegli anni, come hanno raccontato alcune ricostruzioni uscite in questi giorni su Foreign Policy e sul South China Morning Post, Pechino consentiva la pubblicazione di libri e la trasmissione di programmi sulla tv di stato apertamente critici con le teorie sul “climate change”, definite un complotto americano contro Pechino. Nel 2010, ricorda Foreign Policy, un ospite in uno dei talk show più visti del paese si lanciò in una filippica rimasta famosa, in cui accusava i “bastardi stranieri” e i “disgustosi occidentali” di usare le menzogne di scienziati “controllati come marionette” per cercare di distruggere la Cina. Il “complotto del CO2” divenne un tema frequente in una retorica nazionalista già ricca di trame occidentali ai danni di Pechino. Il governo cinese non ha mai sostenuto esplicitamente queste tesi, ma per anni ha lasciato che si diffondessero e influenzassero l’opinione pubblica.

Sono bastati pochi anni e a partire dal 2011 la situazione è cambiata. La ricca letteratura complottista ha iniziato a esaurirsi fino a scomparire. I toni dei talk show si sono moderati e i media di stato e i discorsi dei leader si sono riempiti di riferimenti alla bellezza e alle opportunità dell’economia green. Il governo ha iniziato ad approvare piani mastodontici sulle energie rinnovabili (l’ultimo, inaugurato ieri, è una gigantesca piattaforma di pannelli solari galleggiante sul mare) fino a diventare il primo investitore al mondo nel campo. Dopo aver umiliato Obama a Copenaghen, i cinesi si sono mostrati recettivi alle nuove aperture del presidente americano e i colloqui sono andati avanti proficuamente fino alla firma del trattato di Parigi, elogiato come uno dei successi internazionali del capo di stato cinese Xi Jinping. Dopo la decisione di Trump di uscire da Parigi, Pechino ha immediatamente adocchiato l’opportunità di assumere un ruolo di leadership sul tema, e si è proposta all’Europa come partner e padrino politico.

  

Cos’è cambiato in così pochi anni? A livello interno, un’opinione pubblica sempre più esigente ha iniziato a malsopportare il problema dell’inquinamento asfissiante che affligge le grandi metropoli cinesi. I livelli di polveri sottili nell’aria di Pechino sono decine di volte superiori a quelli delle città occidentali, ci sono giorni in cui il governo consiglia di non uscire di casa, i bambini non possono andare a scuola. Secondo alcuni esperti, il Partito comunista cinese ritiene che l’inquinamento sia un pericolo per la stabilità politica più di quanto non lo sia la repressione dei diritti umani. L’altra causa è esterna, ed è la possibilità per la Cina di presentarsi al mondo come una (super)potenza responsabile e ragionevole, su cui poter fare affidamento in un momento in cui la leadership americana vacilla. Questa strategia è stata già testata in altri campi, come il commercio, e ha dato risultati. Poco importa se la Cina è ancora il maggior inquinatore del mondo. Il segreto è trattare i temi ambientali come una questione politica, non scientifica. E oggi i politici migliori sono a Pechino, non a Washington.

  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.