Donald Trump (foto LaPresse)

L'idea perversa del leak pro-Trump

Il presidente (inconsapevole?) svela di aver condiviso fatti con la Russia, si cautela sui dettagli legali ma il trucco si vede. Un genere codificato

New York. Al risveglio dopo una nottata tormentata dall’accusa di aver passato alla Russia informazioni “altamente riservate”, ricevute tramite un alleato, Donald Trump si è esercitato in un genere che dopo il caso Comey è ormai codificato: andare in collisione con la versione della Casa Bianca, possibilmente confondendo le acque. Su Twitter Trump ha detto di aver condiviso con la Russia “fatti che riguardano il terrorismo e la sicurezza dei voli di linea”, e di averlo fatto per “ragioni umanitarie” e perché Mosca possa fare di più contro lo Stato islamico. Ha specificato che ha “l’assoluto diritto” di fare ciò che ha fatto. È una smentita soltanto parziale e obliqua dell’accusa lanciata per primo dal Washington Post. Trump non ha affrontato le questioni fondamentali sollevate dallo scoop: non ha ammesso di aver passato informazioni secretate, non ha detto che ciò che ha condiviso con Sergei Lavrov e l’ambasciatore russo arrivava da un alleato – Israele, secondo le rivelazioni del New York Times – attraverso un intricato accordo per proteggere le fonti ed evitare i leak, non ha ammesso che Israele non aveva dato il permesso di divulgare a terzi. Il presidente ha il potere di desecretare la maggior parte delle informazioni che arrivano sulla sua scrivania, ma in questo caso Trump non dice se si tratta di materiale declassificato per l’occasione. In modo altrettanto obliquo, il flusso di tweet presidenziali è entrato in conflitto con la versione data dal Consiglio per la sicurezza nazionale e dal dipartimento di stato, ma guardandosi dalle contraddizioni esplicite.

 

Con una dichiarazione estremamente accorta, il generale H.R. McMaster lunedì sera ha spiegato che nell’incontro s’è parlato di minacce specifiche, ma “non sono state discusse fonti d’intelligence, metodi di raccolta e operazioni militari” al di là delle informazioni pubbliche. Ricapitolando: l’articolo del Washington Post dice che nell’incontro sono state comunicate certe cose, McMaster ha risposto che non sono state comunicate altre cose, Trump ha concluso che non è accaduto nulla di male. Ieri al briefing con la stampa, McMaster ha ripetuto fino allo sfinimento che le informazioni condivise erano “completamente appropriate”, ammettendo fra le righe che effettivamente uno dei dettagli contestati, il nome della città controllata dallo Stato islamico in cui la fonte ha raccolto il materiale, è stato citato nell’incontro, ma l’estensione del territorio del califfato non è un segreto. Un attimo prima di lasciare il podio si è lasciato scappare un passaggio poco rassicurante: “Il presidente non era nemmeno al corrente della provenienza di questa informazione”, il che significa che Trump potrebbe aver detto ai russi cose che non avrebbe dovuto dire perché non si era reso conto che non andavano dette. Una specie di confessione involontaria. Questo riapre la ben nota questione del disprezzo dell’expertise e dell’allergia per i briefing dell’intelligence che Trump non ha mai nascosto. Il presidente non ha pazienza per i documenti più lunghi di una pagina, preferisce gli elenchi per punti, chiede cartine e grafici, ha sempre sostenuto di essere abbastanza intelligente da non avere bisogno di un aggiornamento quotidiano. 

 

 

 

A rigore di logica e di legge, le varie giustificazioni disposte dall’Amministrazione sul caso non si contraddicono in modo inequivocabile, non c’è l’episodio che inchioda il presidente all’alto tradimento o all’intelligenza con il nemico. Ma il diavolo, che un tempo usava stare nei dettagli, ora è nel quadro complessivo, dove emerge un presidente che per calcolo o inettitudine passa informazioni non a un avversario qualunque ma alla Russia di Putin, la potenza che affiora in ogni sospetto, in ogni leak, in ogni scandalo dall’inizio della campagna elettorale. I lealisti di Trump scrollano le spalle, ma secondo Alan Dershowitz, leggendario avvocato e costituzionalista, si tratta della “più grave accusa mai mossa a un presidente degli Stati Uniti in carica”. Va ricordato che passare informazioni appositamente declassificate è nei poteri del presidente, mentre l’ostruzione della giustizia – ad esempio licenziare il direttore dell’Fbi per mettere i bastoni fra le ruote a un’inchiesta – è passibile d’impeachment. La leadership dei repubblicani al Congresso ha offerto critiche moderate nella circostanza. Mitch McConnell, capo dei senatori, minimizza, ma fra i ranghi molti sembrano prossimi al limite della pazienza. Il capo della commissione esteri al Senato, Bob Corker, ha detto che “compromettere fonti è una cosa che non si fa, punto” e sulla stessa linea poco accondiscendente si sono schierati Ben Sasse, John McCain e altri senatori. Poiché il mondo di Trump è governato da una logica fluida, a Washington circola anche una versione opposta della vicenda, dove la fonte del Post è in realtà un consigliere fedele a Trump in cerca di una terapia d’urto. Il blogger conservatore Erick Erickson dice di conoscerlo, e che ciò che l’ha mosso è “la speranza che l’intensa polemica sui giornali dia un calcio nel sedere al presidente”. Spingerlo fino all’orlo del burrone per farlo rinsavire.

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