Emmanuel Macron (foto LaPresse)

"Quella di Macron è la vittoria delle élite orgogliose"

David Allegranti

Parla lo scrittore Giuliano Da Empoli, vicino a Renzi: “In Italia non c’è classe dirigente. E questo è il motivo per cui siamo il laboratorio del populismo”

Roma. La vittoria di Emmanuel Macron, dice al Foglio lo scrittore Giuliano da Empoli (il 18 maggio esce il suo “La rabbia e l'algoritmo” per Marsilio), a capo del think-tank Volta, rappresenta il trionfo delle élite, fiere di esserlo, contro la retorica anti-establishment. “Macron, anche a livello fisico, è l'incarnazione, quasi l'idealtipo, dell'élite francese; se ti devi immaginare il prototipo dell'Enarca, di chi ha studiato a Sciences Po e all'Ena, pensi a lui. Ha lavorato un po' nel pubblico, un po' nelle grandi banche, poi è tornato nel pubblico. È diritto, alto e magro, studioso. Insomma, incarna il modello dell'élite francese, competente, molto ben formata, e un po' spocchiosa”, dice da Empoli, al telefono dalla sua abitazione di Parigi.

 

“Un modello rigettato in maniera violentissima in Francia, ma anche in Italia, con la cosiddetta 'casta', che però in confronto fa ridere. Perché qui, in Francia, c'è un gruppo relativamente piccolo di persone - si conoscono tutti, sono stati a scuola insieme, popolano le élite sia dentro i partiti che dentro le grandi aziende - che è considerato responsabile di tutti i mali”. Ora, le élite sono sotto assalto dappertutto, non solo in Francia. Ma è, dice da Empoli, naturale conseguenza di alcune innovazioni. “Tra le conseguenze ideologiche della tecnologia c'è la convinzione che uno valga uno; che il medico con la sua spocchia si giustifichi fino a un certo punto, visto che tu hai un tablet con tutte le informazioni per smentirlo, per saperne più di lui, con la sua malafede e i suoi magheggi. Quindi la competenza non si trova più nella persona, ma nella rete, nel cloud, e nessuno può avere la pretesa di saperne di più”.

 

Il contesto ideologico-sociale in cui era calato Macron era questo. Eppure, ciononostante, “Macron si è affermato e ha vinto, superando non soltanto il candidato del fronte repubblicano ma anche gli altri populisti, molto abili, come Mélenchon; soprattutto ha schiacciato la Le Pen, come si era già visto al dibattito televisivo di mercoledì scorso, dove Macron aveva utilizzato tutta la sua macchina poderosa, di competenza e formazione classica, per fare alcune cose. Primo: ha inchiodato la Le Pen alle sue contraddizioni e ha finito col prevalere anche fisicamente, che in televisione è la cosa principale, mettendo in luce l'insufficienza della proposta populista; tutti i vuoti, le omissioni, le cose che non tornano. Secondo: ha messo questa competenza al servizio di un progetto di cambiamento molto radicale, perché Macron è davvero uno che ha introdotto una rottura nel sistema”. Poi, dice da Empoli, “vedremo se sarà in grado di cambiarlo o no. Intanto però ha vinto, facendosi portatore di un progetto di cambiamento molto forte e molto più credibile di quello della Le Pen, proprio perché sa dove mettere le mani e si fa latore di competenze. Non di un'astratta competenza tecnica, bensì di valori: per tutta la campagna elettorale è rimasto agganciato all'ideale europeista, di adesione al progetto europeo. Ora capiremo se Macron riuscirà a rispondere a una domanda cruciale per la democrazia la civiltà per come le conosciamo: a cosa serve un'élite? A cosa serve una classe dirigente?”.

 

Da Empoli, intanto, prova a spiegare che cosa significa per lui: “Credo che rimanga vero ciò che dicevano i comunisti: 'Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni'. Rimane dunque evidente che una democrazia ha bisogno di una classe dirigente, cioè di una società amministrata da persone che sono in grado di farlo, smentendo l’ipotesi balorda sulla base della quale, come dice Grillo, anche una massaia può fare il ministro dell'economia. L'esperienza empirica dimostra che ci sono delle capacità che sono distribuite in modo diseguale, e che devono essere messe al servizio delle stesse persone che le possiedono, naturalmente, visto che non siamo in un mondo popolato da santi altruisti, ma anche al servizio dell'interesse generale. Il problema delle élite per come si rappresentano oggi è che sono percepite come un gruppo che invece persegue soltanto un proprio interesse di casta o di gruppo”. E il problema dell'Italia, entrando nello specifico, è che “qui una classe dirigente non esiste. L'Italia aveva una classe dirigente, fino a un quarto di secolo fa, che era fatta di persone che avevano un processo di selezione, alcuni punti fermi e alcuni valori in comune; un gruppo di persone passate da un processo di selezione, magari diversificato, con elementi comuni e con una serie di principi o di regole del gioco che erano sostanzialmente condivise. Questo in Italia esisteva fino agli anni Novanta, quando c'era una classe dirigente magari inadeguata, tant'è che poi è stata scalzata, e formata in larga misura nei partiti, cresciuta nelle élite dello Stato, diffusa tra i funzionari del parlamento, del consiglio di Stato, nella banca d'Italia e poi in molte partecipazioni statali, in primo luogo l'Iri, poi l'Eni. Questa la si poteva definire, in qualche modo, una classe dirigente, poi è stata massicciamente rigettata. Oggi c'è un'élite – non la chiamerei neanche classe dirigente – fatta di persone, come c'è dappertutto, che sono in posizione di potere”.

 

Però, osserva da Empoli, “sono dei gruppi che ragionano in una logica sostanzialmente feudale, secondo lo schema di Guicciardini più classico; si combattono a cavallo con qualunque arma trovino a loro disposizione. Negli ultimi vent'anni, hanno cavalcato i populismi. Perché siamo, non a caso, il laboratorio dei populismi? Perché non c'è una classe dirigente che faccia da filtro, perché da noi c'è un pezzetto di establishment che ha interesse a cavalcare il populismo, il giustizialismo, il leghismo o il grillismo di turno per fare dispetto al vicino di casa, secondo una logica cinquecentesca o tardo quattrocentesca: Franza o Spagna purché se magna. In Italia i populismi dunque arrivano diretti, non trovano filtri o resistenza”. Dunque, come se ne esce? “Anche da noi l'antidoto all'algoritmo è la classe dirigente. O ti fai comandare dai big data e dai sondaggi, oppure hai una comunità di persone che sulla base dei loro valori e delle loro convinzionI cercano di opporsi al populismo”.

 

A Macron, intanto, tocca il compito di dimostrare che “la classe dirigente è il contrario dell'uno vale l'altro. I suoi detrattori dicono che è il prodotto dei banchieri, che è un pupazzo e forzano la mano seguendo balorde teorie complottiste. Da un certo punto di vista, questi detrattori hanno ragione: lui è effettivamente il prodotto, dotato di una sua personalità, di un certo sistema sociale. Però ha capito che quel sistema va cambiato, in parte smontato e che i suoi padrini andavano traditi”. Da noi invece “il sistema non c'è e il percorso per ottenere un risultato simile è molto più tortuoso, meno evidente e meno lineare”. Ecco, viene da chiedersi se oggi i partiti servano a qualcosa. D'altronde Macron non ha partecipato alle primarie del partito socialista francese e ha fondato, un anno fa, un suo movimento. “I partiti sono tutti profondamente in crisi di identità e vanno reinventati. Macron non è passato dai partiti francesi, perché per lui non erano utilizzabili e sarebbero stati più un danno che un vantaggio. Però ha creato comunque un partito. Poi possiamo pure chiamarlo 'movimento', ma di fatto è un'organizzazione con 200 mila iscritti, con candidati in tutti i collegi delle prossime elezione legislative. C’è bisogno dunque dei partiti, soprattutto oggi che viviamo nella logica orizzontale della Rete. In Austria, Van Der Bellen ha rafforzato il risultato della prima tornata delle presidenziali, riconquistando le campagne e le periferie che avevano votato per il candidato populista, con una campagna martellante di porta a porta. Come ha detto Obama: 'If you're tired of arguing with strangers on the Internet, try talking with one of them in real life'. In quel discorso c'era già tutto. I partiti vanno trasformati in modo radicale, ma servono ancora. Dirò di più: mentre in altri paesi, come la Francia, i partiti non hanno mai formato la classe dirigente, che viene dalle grandi scuole e poi passa dai partiti, da noi invece i partiti erano anche il luogo della formazione della classe dirigente. Oggi i partiti hanno il compito di trovare nuovi modi per formare un pezzo di quella classe dirigente”. Un discorso che in Italia oggi vale soprattutto per il Pd.

  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.