Donald Trump e Paolo Gentiloni (foto LaPresse)

La visita di Gentiloni da Trump è stata normale. Non è poco

Analisi di un processo di normalizzazione, dalla risposta ambigua sul “nessun ruolo in Libia” alle cene informali

New York. La visita del premier Paolo Gentiloni alla Casa Bianca è stata alternativamente descritta come il sigillo di una perfetta intesa fra solidi alleati e il punto più basso della relazione transatlantica. E’ stato un trionfo italo-americano oppure un disastro condito da luoghi comuni di protocollo e da una goffa battuta sull’amicizia fra Trump e Pavarotti? La verità – e forse anche la virtù – sta nel mezzo. Secondo quanto ricostruito dal Foglio, è stato un incontro normale, il che è già una notizia per un’Amministrazione erratica, non convenzionale e a corto di personale qualificato per gestire i processi della politica. Normale non significa soltanto che non ha costretto Gentiloni a farsi dei selfie con i turisti sul campo da golf di Mar-a-Lago, cosa che sarebbe stata anche stilisticamente poco credibile, ma che il governo pare essersi messo, almeno su alcuni dossier di politica internazionale, sulla lunga via della normalizzazione. L’incontro con Gentiloni ha avuto toni cordiali e non ha sofferto di antagonismi premeditati, con Trump e i suoi uomini che hanno offerto ascolto al premier probabilmente più di quanto i nostri diplomatici avessero osato sperare. Anche questo non era garantito. Il mese scorso l’entourage del presidente ha accolto Angela Merkel nello Studio Ovale distribuendo alla delegazione documenti sulla bilancia commerciale tedesca e chiedendo conto del motivo per cui non spende il 2 per cento del pil nella difesa. Un po’ come accogliere un vecchio amico presso cui si vanta un credito domandando: “Dove sono i miei soldi?”. La mancata stretta di mano non era che un aperitivo della freddezza che sarebbe continuata a porte chiuse. Non è questo il Trump che Gentiloni si è trovato di fronte, nonostante l’immancabile richiesta di contribuire di più alla Nato che Trump ha ribadito in un’intervista alla Ap (chi era all’incontro dice però che Trump non ha mai parlato del famoso 2 per cento). Ha avuto a che fare, piuttosto, con il politico pragmatico che nelle ultime settimane si sta lasciando influenzare internamente dalle voci più convenzionali sulla politica estera, dall’onnipresente Jared Kushner al consiglio per la sicurezza nazionale ridisegnato dal generale H.R. McMaster fino a Gary Cohn, che pur essendo il consigliere economico è portatore di una visione del mondo che va be oltre i numeri e le tabelle. Gli incontri con i leader internazionali, da Xi Jinping al re Adbullah II di Giordania fino a Jens Stoltenberg, hanno mostrato che un lavoro di correzione e persuasione è possibile, in parte, anche dall’esterno.

 

C’è stato un certo stupore, nella delegazione italiana, nel vedere quanto Trump era preparato sui contributi militari dati dall’Italia nel corso degli anni nei vari teatri di guerra, segno che anche i briefing presidenziali stanno cambiando tenore. “Non vedo un ruolo per gli Stati Uniti in Libia” è stata la frase di Trump più discussa della conferenza stampa, affermazione di disimpegno che i diplomatici leggono esclusivamente come rifiuto di un impegno militare, cosa che peraltro il governo italiano non ha chiesto. “Questa lettura è sostanzialmente corretta”, spiega al Foglio Ben Fishman, analista del Washington Institute for Near East Policy che dal 2009 al 2013 si è occupato di Libia al consiglio per la sicurezza nazionale. “L’istinto politico – continua Fishman – ha portato Trump a prendere le distanze quando gli hanno chiesto di un ‘impegno’ americano in Libia, ma è normale in un momento in cui la sua base è agitata per una virata verso posizioni più mainstream. Da quello che so, a porte chiuse è andata decisamente meglio”, dove per “meglio” Fishman intende dire che Trump è stato ricettivo rispetto al percorso politico sulla Libia che l’Italia propone, ovvero quello del sostegno al governo di unità nazionale. “Sono deluso dal fatto che il presidente non abbia pronunciato in pubblico nemmeno una frase in appoggio del piano sostenuto anche dall’Onu, ma dato il contesto politico è già molto se a porte chiuse ha aperto un dialogo”, dice Fishman. Secondo l’analista sono molte le voci al dipartimento di stato, nel consiglio di sicurezza nazionale e al Pentagono che sono in sintonia con il messaggio sulla Libia che Gentiloni ha portato alla Casa Bianca. E sono parecchie anche quelle che, nell’entourage diplomatico italiano e non solo, si stanno convincendo che la tesi di un’amministrazione litigiosa e ingovernabile fino ai limiti dell’irrazionalità è fortemente esagerata. Gentiloni se n’è andato piuttosto con l’impressione che un dialogo proficuo sia possibile, e in un certo senso il complicato rapporto di Trump con il Cremlino illustra il modus operandi: l’attacco americano alla base siriana ha provocato quello che nelle dichiarazioni pubbliche è diventato “uno dei momenti più bassi delle relazioni”, ma nei punti più bassi delle relazioni il segretario di stato di solito non incontra per quattro ore il suo omologo russo né viene ricevuto dal presidente per due ore, come ha fatto invece Rex Tillerson. Un po’ di anticamera è un prezzo politico più che accettabile.

 

I segni della normalizzazione si sono visti anche negli incontri informali a lato. McMaster, che non è noto per le sue qualità di partygoer, ha accettato l’invito dell’ambasciatore italiano, Armando Varricchio, a un ricevimento a Villa Firenze, dove, conversando con gli ospiti, il consigliere per la sicurezza nazionale si è espresso in modo lusinghiero sui soldati italiani, con cui ha avuto modo di lavorare in particolare in Afghanistan. Assieme a lui c’era anche Kellyanne Conway, la consigliera del presidente che per via delle origini italiane – per parte di madre – è diventata in questi mesi un interlocutore naturale. Nessuna menzione, invece, per il M5S e i suoi presunti legami con la Russia. Che non s’affrontino temi di politica interna è parte del protocollo, ma il 30 marzo la Stampa ha lanciato con grande evidenza in prima pagina la notizia che il governo americano manda messaggi di preoccupazione in questo senso, dunque pareva lecito aspettarsi un qualche seguito. E invece. Una cena cordiale e un incontro normale bastano per saldare un’amicizia che nelle premesse appariva complicata? Ovviamente no, e infatti le divergenze non sono mancate. Durante l’incontro, Steve Bannon e la corrente più populista dei consiglieri trumpiani hanno sollevato domande di genere “identitario” sui migranti che arrivano sulle coste italiane e minacciano il carattere occidentale, un filone narrativo dal quale Gentiloni ha dovuto lavorare non poco per discostarsi.

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