Julius Krein (foto via Youtube)

Chi è Julius Krein, l'intellettuale disorganico di Trump che legge Baudrillard e vuole la sanità pubblica

Il millennial antimoderno che dà forma all’informe presidente. Educato dai neocon e sopravvissuto al trauma di Wall Street, a Herat ha capito che la democrazia non si esporta

New York. Prima di lavorare in un incubatore di startup tecnologiche in Afghanistan, Julius Krein credeva nell’esportazione della democrazia. Il progetto era finanziato da un apparato del dipartimento della Difesa con un nome a metà fra Max Weber e George Orwell, la “task force per la operazioni di stabilizzazione degli affari” (Tfbso), che si occupava fra le altre cose di distribuire metano agli automobilisti afghani sconcertati e di portare dall’Italia pecore di razze selezionatissime per lanciare il cashmere a chilometro zero. Secondo i comunicati stampa di allora, questo laboratorio avrebbe trasformato Herat in una Bangalore delle zone di guerra, una Silicon Valley degli stati falliti, diffondendo diritti e competenze attraverso la rete e sviluppando il capitale umano locale. Nella realtà era il luogo dove i capi tribali della zona trovavano una banda abbastanza larga per scaricare film porno. L’idea era venuta al direttore di questa task force quando aveva sentito che in giro per la città c’erano “afghani con i capelli lunghi sul genere della Silicon Valley” che avrebbero potuto beneficiare di finanziamenti a pioggia del Pentagono, e le aziende americane del settore non si sono fatte sfuggire un appalto da 48,6 milioni di dollari per realizzare l’incubatore. Gli uomini di Google, partner del progetto insieme a un pugno di imprese, non si sono mai presentati.

 

Quando lo scorso anno un ispettore speciale ha spiegato a una infastidita commissione del Senato che i contractor che dovevano realizzare il progetto “non hanno fatto nulla”, non ha detto tutta la verità. I dipendenti dell’Ibm, incaricati di assumere il personale, hanno messo a punto molte iniziative per creare un clima di armonia con gli startupper locali, fra le quali si annovera un memorabile torneo di beach volley misto per fare team building. Krein a quel punto ha visto con i propri occhi che il piano per conquistare i cuori e le menti degli afghani non stava decollando. Bevendo un cappuccino in uno Starbucks sulla 52esima strada, dove s’affrettano ragazzi con il gilet Patagonia, racconta che quel mese passato a contemplare il peggio della burocrazia statalista che offriva fibra ottica come Maria Antonietta offriva brioches ha avuto un impatto profondo sulla sua visione del mondo. La realtà lo ha assalito dalle parti di Herat.

Neoconservatore convertito

Il giovanissimo discepolo di Bill Kristol, cresciuto nel cenacolo dell’unico conservatore rimasto a Harvard, Harvey Mansfield, era arrivato come “subcontractor” imbevuto di nozioni neoconservatrici su regime change e nation building, e se n’è andato disilluso circa la possibilità di copiaincollare il liberalismo a tutte le latitudini. Se l’ordine liberale americano era davvero un destino universale, questo non si deduceva dal successo delle iniziative del Pentagono per la costruzione di un tessuto capitalistico. Il suo conservatorismo ha virato verso lidi alternativi. Quali? Quelli della “American Greatness”, come ha intitolato un blog che aveva l’ambizione di riflettere su alcune delle critiche che nel suo impeto distruttore e populista Donald Trump aveva suscitato. Era l’epoca lontana in cui Trump era una boutade che quasi involontariamente metteva il dito nell’identità incerta del mondo conservatore, il Journal for American Greatness era uno scherzo e Krein andava sotto il nom de plume Plautus. Un commediografo, appunto. Oggi ha abbandonato gli pseudonimi e dirige American Affairs, trimestrale incravattato che ambisce a plasmare “l’idea platonica” dietro al fenomeno politicamente confuso del trumpismo, grazie a un parco di firme di prima fascia, da Michael Anton, che nel frattempo è diventato direttore per le comunicazioni strategiche del Consiglio per la sicurezza nazionale, a David Goldman, già conosciuto come Spengler. Nel prossimo numero ci sarà anche un intervento di Pierre Manent, segno di un interesse per il dialogo con la cultura europea, alla faccia della parodia del nazionalismo autoreferenziale. 

 

L’impresa editoriale è sostenuta da un paio di famiglie facoltose che il direttore preferisce non nominare e il primo numero ha venduto seimila copie, il triplo di quelle previste. Al party di presentazione della rivista, all’Harvard Club di Manhattan, era riunita la crema degli intellettuali della destra, dai paleoconservatori ringalluzziti dall’affermazione della filosofia “America First” ai nevertrumpers che si sono trovati improvvisamente dal lato sbagliato della storia, passando per un manipolo di libertari guardinghi e per i conservatori sociali sopravvissuti in qualche modo alle culture wars.

 

La potente Rebekah Mercer parlava fitto con l’altrettanto potente Peter Thiel, che è diventato amico di Krein attraverso un gruppo di lettura di Leo Strauss. Kristol aveva definito così la platea: “Un misto di persone normali che frequentano gli eventi conservatori, alcuni personaggi interessanti distintamente trumpiani e vari pazzi”.

 

Nel frattempo la storia ha cambiato di nuovo marcia. La reazione militare all’attacco chimico ordinato da Bashar el Assad, il precipitare delle relazioni con la Russia in “uno dei punti più bassi della storia” (parola del presidente), le mani tese alla Cina e l’escalation retorica con la Corea del nord, verso la quale Trump ha scagliato a parole una portaerei in realtà diretta in Australia, hanno diffuso immediatamente l’allarme fra gli isolazionisti più trumpiani di Trump. Si è preso a parlare di alto tradimento, di cedimento all’ideologia globalista. Nel giro di qualche giorno Steve Bannon e i populisti sono passati da dominatori assoluti della mente di Trump a paria in cerca di un nuovo impiego, Jared Kushner e Ivanka si sono trasformati in poliziotti del pensiero liberal dentro al palazzo scosso da un nuovo terremoto.

 

A rigore, Krein dovrebbe essere terrorizzato, invece sorride: “Non sono per nulla deluso. Una politica estera che si occupa di eliminare i nostri nemici non mi sembra affatto problematica, e l’intervento in Siria non segnala nessun impegno per la promozione della democrazia o altre strategie per il nation building. Le dichiarazioni sulla Russia mi pare abbiano condotto a un meeting di due ore fra Tillerson e Putin, non hanno certo chiuso il canale diplomatico, dichiarare la Cina una manipolatrice di valuta sarebbe una pessima idea in questo momento”, dice. Daniel McCarthy, intellettuale legato a una delle riviste di riferimento dei conservatori isolazionisti, The American Conservative, ha consegnato al Foglio qualche giorno fa una battuta felice: Trump doveva “drain the swamp” e invece è stato “swamped by the drain”. Il rivoluzionario è stato già normalizzato, accusa feroce e forse precoce. Krein risponde citando l’articolo di Anton apparso sul primo numero della sua rivista: “Fra le molte ragioni per nutrire una speranza sulla politica estera del presidente Trump è che sembra capire che correggere gli errori dei neo-interventisti non significa abbracciare quelli dei paleo-isolazionisti”. E di suo pugno aggiunge: “Non sono pacifista come questi qua”.

 

Il giovane Krein cerca una terza via conservatrice fra il neo e il paleo, fra interventismo e pacifismo, fra Kagan e Buchanan; il pragmatismo creativo di questa fase trumpiana sembra una buona miscela per favorire una transizione: “Abbiamo bisogno di meno ideologia in questo momento, dobbiamo disintossicarci”. I suoi membri preferiti del governo sono infatti quelli a minore carica ideologica, Rex Tillerson e Wilbur Ross. Di Gary Cohn, ex presidente di Goldman Sachs in grande ascesa nell’organigramma dei consiglieri di Trump, ha un’ottima opinione per la sua fama di selvaggio tagliatore di costi e sprechi. Ama ricordare un aneddoto che spiega la forma mentale del personaggio: “Quando ha visitato per la prima volta da presidente l’ufficio di Boston di Goldman Sachs ha notato che ogni dipendente aveva il doppio dello spazio rispetto a quelli di New York. Nel giro di qualche giorno ha fatto ridisegnare l’ufficio per risparmiare spazio e ha messo in affitto la parte superflua. E’ quello che serve adesso nell’amministrazione”.

 

A parlare è il Krein che ha mosso i suoi primi passi nella finanza dopo la laurea ad Harvard. Ha iniziato a lavorare a Bank of America nella sezione merger & acquisition nel 2007, “quando ancora pensavamo che tutto questo sarebbe durato per sempre”, e da Wall Street ha visto implodere Bear Sterns, prima tessera del domino del grande crollo. Quando il mondo finanziario è venuto giù lui faceva ristrutturazioni per Blackstone, ha visto migliaia di licenziamenti molto meno divertenti di quelli che faceva Trump a The Apprentice. In Messico ha chiuso diversi affari, in Africa ci è arrivato lavorando per una boutique finanziaria che si occupava di energia. La sua odissea contiene tutte le promesse e le disillusioni dei millennial, e pure la sua eterodossia ideologica esibisce un marcato elemento generazionale.

 

Krein ha 31 anni, il mondo diviso in due blocchi ideologici rigidi lo ha visto soltanto sui libri, gli eventi che hanno segnato la sua epoca sono l’11 settembre e la Grande Recessione, è cresciuto con la modernità già liquefatta e con il Partito repubblicano già in crisi d’identità. Si è trovato spesso fuori posto. Nel conservatore South Dakota, dov’è cresciuto, era considerato troppo a sinistra, ad Harvard era un reazionario. A chi lo considera troppo giovane per guidare un vero movimento intellettuale ricorda che William Buckley aveva la sua età quando ha fondato la National Review.

 

Negli anni dell’università ha stretto un sodalizio intellettuale con il coetaneo Gladden Pappin, professore a Notre Dame e vicedirettore di American Affairs, e il cerchio s’è allargato ad altri intellettuali in erba. E’ prematuro parlare di corrente o ondata, ma in Krein e compagni si riconoscono caratteristiche specifiche, una comune “persuasione”, per usare un termine prediletto da Irving Kristol. Certe letture proibite per le vecchie generazioni di conservatori per loro sono sdoganate, da Zizek a Baudrillard, e il wunderkind cresciuto alla scuola neocon incoraggia la critica a Strauss, citando “la chiusura della mente straussiana” di Mark Lilla come testo di riferimento. Il nome di Foucault porta ancora il fardello della militanza, ma non è l’impresentabile per eccellenza. Nella ricerca di una nuova sintesi conservatrice, il nodo gordiano è il rapporto con la modernità. Nel tipo di populismo intellettuale che Krein propone c’è ampio spazio per il pensiero post moderno, per superare quell’ondata conservatrice che ha fatto sforzi incredibili per trovare cittadinanza ideale nella modernità ed essere legittimata dal liberalismo: “Noi siamo antimoderni, non abbiamo il minimo interesse a rileggere Locke, possiamo dialogare con Platone e Derrida”.

 

Sono forse i precetti del “bannonismo”, il “nazionalismo economico” venato di sentimenti antimoderni e pulsioni identitarie? Krein dice che Bannon non lo conosce, non ci ha mai parlato, ma naturalmente condividono alleanze comuni e ha apprezzato il suo famoso discorso all’associazione Dignitatis Humanae in Vaticano nel 2014, il testo che si avvicina di più a un manifesto programmatico. “In particolare ho apprezzato la visione sul capitalismo”, spiega Krein, alludendo alla distinzione bannoniana fra il “capitalismo illuminato”, informato dalla concezione giudaico-cristiana, che ha portato prosperità alla classe media occidentale e ha introdotto la Pax Americana, e il “capitalismo corrotto”, nella sua forma statalista – Cina, Russia – oppure nella sua versione libertaria e “oggettivista”, secondo la concezione della filosofa Ayn Rand.

 

Di Bannon pensa che “i media esageravano nell’attribuirgli potere quando era nel suo momento di massima influenza, ed esagerano ora nel dire che ha perso potere”. Se c’è una persona nell’Amministrazione a cui semmai Krein dovrebbe essere accostato è Jared Kushner, dato che ad Harvard era compagno di corso del fratello, Josh.

 

Non sono le questioni etiche e sociali a occupare uno spazio prominente nella riflessione di American Affairs, ché il giornale è nato quando la battaglia culturale era già persa, ma per Krein sono rilevanti “a livello personale”. La presenza nel board of advisors di Rusty Reno, direttore di First Things e intellettuale fra i più attivi nella cosiddetta destra religiosa nel creare ponti con l’Amministrazione Trump. “Mettiamo meno in rilievo certi temi perché First Things esiste già e noi non volevamo fare Second Things – spiega Krein – ma anche perché quel dibattito è in parte logoro, almeno nel mondo in cui è stato impostato finora”. Come molti altri conservatori delle generazioni più giovani, è convinto che quando si parla di vita e matrimonio sia più efficace procedere con l’attivismo locale che con i grandi scontri ideologici nazionali. Più volontariato al consultorio dietro casa, meno articolesse che proclamano la verità ma sono superate dagli eventi.

 

Un’altra posizione eterodossa di Krein riguarda il sistema sanitario, e il fallimento di Trump nel revocare e rimpiazzare l’Obamacare è la vera delusione che lamenta in questo inizio di mandato. Soltanto che la sua critica ha ragioni opposte rispetto ai membri del Freedom Caucus, la corrente che ha fatto naufragare la riforma di Trump dicendo che era una inaccettabile “Obamacare light”. C’era ancora troppo intervento dello stato per quelli che vengono descritti come gli “ultraconservatori”. “Io sono a favore della sanità pubblica”, dice a sorpresa Krein. Sanità pubblica? “Sì, copertura universale fornita dallo stato, ma in fondo lo sostengo per ragioni di mercato”. Argomenta: “Siamo in molti, direi la stragrande maggioranza, ad essere a favore dell’accesso di tutti agli ospedali per le cure d’emergenza, pochi sostengono di non curare affatto chi ne ha davvero bisogno. Dovremmo arrivare a dirci, come conservatori, che il sistema che l’America ha creato non è un sistema di mercato, non c’è un’effettiva libertà e nemmeno si pratica il contenimento dei costi. Il risultato è che spendiamo molto di più di tutti gli altri paesi del mondo per servizi sanitari mediocri. Il sistema basato sul datore di lavoro come provider dell’assicurazione sanitaria non ha alcun senso, e anzi ha elementi deleteri, è un deterrente enorme per l’imprenditoria. Decine di migliaia di americani rinunciano a mettere in piedi un business per i costi dei benefit sanitari collegati. Questo è capitalismo? E’ mercato? E’ lo spirito americano? Non credo proprio. Allora tanto vale dirsi la verità e creare un sistema pubblico razionale che offra cure buone per tutti al minore costo possibile”.

 

Ma questo non contraddice i comandamenti dell’individualismo americano, non è la negazione della libertà personale che considera la salute come un bene di cui disporre e non un diritto da garantire? “La sanità non dovrebbe essere affatto una questione ideologica, e per la maggioranza degli americani non lo è da molto tempo: non vogliono una sanità progressista o conservatrice, vogliono un sistema che cura decentemente le persone. Punto”. E l’anima libertaria dei conservatori? “Sono molto contento di darle una delusione”, spiega Krein, e un sorriso vagamente beffardo compare sul volto di questo giovane cercatore di idee pure per un presidente impuro per definizione, un intellettuale che si sforza di trovare un punto fermo in mezzo al mare in tempesta. Anche Reagan è diventato grande soltanto quando gli intellettuali organici della destra hanno coniato il “fusionismo” fra ingredienti che sembravano incompatibili. Si parva licet. 

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