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Cosa succede dopo la vittoria striminzita di Erdogan al referendum

Enrico Cicchetti

Il voto di domenica mostra un paese spaccato a metà. L'opposizione contesta i risultati, il presidente pronto a prolungare lo stato di emergenza. Le reazioni delle due parti di Istanbul

Istanbul. “Ascolta. Lo facevamo anche noi in Siria, nei primi tempi delle proteste contro Assad”. Mohammed, 31enne di Aleppo, tende l'orecchio e indica fuori dalla finestra. Dalla strada arriva un clangore di latta: sono gli abitanti di Istanbul che, come ai tempi di Gezi park, battono a ritmo pentole e coperchi e fischiano in segno di protesta contro la striminzita vittoria di Erdogan nel referendum costituzionale. 

 

Tre persone sono rimaste uccise in una sparatoria fuori da un seggio nel sud est a maggioranza curda. Sono circolati video di schede timbrate dopo la chiusura del voto. Ma i risultati ancora non ufficiali – per quelli definitivi ci vorranno 11 o 12 giorni, ha spiegato la commissione elettorale – mostrano che il 51 per cento dei turchi ha approvato i 18 emendamenti alla Costituzione, consegnando al presidente Erdogan nuovi super-poteri di governo. Quello votato domenica rappresenta il programma più ampio di riforme costituzionali da quando la Turchia divenne una repubblica, quasi un secolo fa. Al presidente sarà conferito il potere di nominare i ministri, emanare decreti, scegliere la maggioranza degli alti magistrati e sciogliere il parlamento. Il nuovo sistema rottamerà il ruolo di primo ministro e concentrerà il potere nelle mani del presidente, mettendo tutta la burocrazia statale sotto il suo controllo. Ed Erdogan dovrebbe prolungare per altri tre mesi lo stato di emergenza.

 

“Penso che, nonostante la sconfitta, sia il miglior risultato che potessimo raggiungere”, spiega con un po' di sconforto Aylin, mentre si scalda con l'immancabile tazza di te. “Si parlava di ripetere il voto se il No fosse passato in vantaggio. E siccome la vittoria è così risicata, qualcuno sostiene che non ci sarà nemmeno il referendum sull'adesione all'Ue e sulla pena di morte”, che pure Erdogan ha annunciato, senza perdere tempo, domenica sera. “Il No ha vinto a Istanbul, Ankara e in quattro delle cinque città principali”, spiega Aylin, che non si chiama davvero così, una lunga esperienza di attivismo politico. “Sono curda e alevita, due minoranze in una, bella sfiga. Ma non lo dico a nessuno, al lavoro non lo sanno. Due miei zii sono stati uccisi nel golpe dell'Ottanta, altri parenti arrestati. Ho studiato e lavorato in Europa, ma sono rientrata a Istanbul durante le proteste per Gezi park. E anche oggi sono qui. È la mia città”. Il Foglio la incontra nella parte anatolica di Istanbul, nelle strade di Kadiköy, che iniziano a riempirsi di cortei spontanei. Finirà con qualche carica di alleggerimento e una pioggia sottile a raffreddare gli animi. Anche nelle altre roccaforti del No alla riforma - aree urbanizzate, i feudi dell'Egeo e del sud est curdo - le notti vedranno manifestazioni di piazza e cortei improvvisati, in attesa dei risultati definitivi e dell'annunciata battaglia legale, con l'eventuale riconteggio delle schede.

 

Al capo opposto della città, il presidente - abituato ai bagni di folla - tiene il suo discorso insolitamente in sordina: “È la vittoria di tutta la nazione”, dichiara Erdogan e il premier Binali Yildirim gli fa eco: “Non ci sono perdenti, ha vinto la Turchia”. In realtà il paese è spaccato: oltre alle fratture etniche, religiose e politiche, ora si aggiunge il peso delle accese polemiche sui brogli, guidate dal partito repubblicano Chp, che potrebbero andare avanti ancora per molti giorni. E non è il plebiscito che il presidente si aspettava. Piazza Taksim è calma, si allontanano anche le autoblindo coi cannoni ad acqua arrivati alla fine dello spoglio delle schede. Il solito via vai, qualche calcson in più e i supporter del capo di stato con le auto soffocate di bandiere rosse. “È il nuovo Ataturk, ha fatto più di chiunque altro per la Turchia”, spiega esaltato Derya, che vende “simit”, ciambelle salate, come Erdogan, che da giovane era un venditore ambulante. “L'Europa e l'America erano contro di noi. Ma abbiamo vinto, anche se di poco. Ci aspettavamo di più, certo, ma va bene, siamo contenti così. Ora saremo più forti e vedrete cosa può fare la Turchia”.

 

Una Turchia che domenica notte si è allontanata dall'Europa, ma che le è indissolubilmente legata. Non solo perché i paesi dell'Ue sono i primari partner commerciali, ma anche perché circa 2,5 milioni di turchi che vivono nel vecchio Continente hanno diritto di voto in patria. E i “Sì” dall'estero hanno toccato il 59 per cento, con i consensi maggiori dai paesi con cui Erdogan ha polemizzato di più nelle scorse settimane: Olanda, Germania e Danimarca.

 

“Doveva andare così. Era destino”, dice al Foglio Fatma, mentre il battello da Kadiköy dondola verso il porto di Beşiktaş. “La sai la sua storia?”, domanda, indicando la Torre di Leandro, una piccola fortezza a forma di siringa che spunta da un isolotto nel Bosforo. “La fece costruire un re molto innamorato della sua bella, alla quale era stata pronosticata la morte per il morso di un serpente. In mezzo al mare la bestia velenosa non l'avrebbe mai raggiunta. Se non che una vipera si nascose in un cesto di frutta che venne imbarcato e consegnato alla donna. Doveva andare così, era destino”. Ma se uno al destino non ci crede? “Qui bisogna crederci, siamo in Oriente”. Lo stretto che divide Asia e Europa non era mai sembrato così largo.

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