Xi Jinping (foto LaPresse)

"Se Xi sente che Trump è debole, inizierà a testare i suoi limiti". Parla John Pomfret

Eugenio Cau

A unire il presidente cinese e quello americano c’è lo stile di governo autoritario e l’aura da uomo forte che entrambi vogliono trasmettere. Su tutto il resto, i due non potrebbero essere più diversi

Roma. Donald Trump e Xi Jinping sembrano destinati a uno scontro inevitabile. Non parliamo di geopolitica, e della “trappola di Tucidide” che attira alla guerra la superpotenza emergente e il vecchio egemone, ma di personalità. A unire il presidente cinese e quello americano c’è lo stile di governo autoritario (con tutte le differenze tra la dittatura comunista e la democrazia americana) e l’aura da uomo forte che entrambi vogliono trasmettere. Su tutto il resto, i due non potrebbero essere più diversi. Tanto è flamboyant Trump quanto Xi è calcolatore. Tanto Trump promuove un’estetica e una retorica dell’opulenza quanto Xi è stato l’autore di una guerra alla corruzione spietata che in Cina ha fatto crollare le vendite di beni di lusso. Mentre Trump trascorreva un’infanzia agiata, Xi era uno dei giovani colpiti dalle follie della rivoluzione culturale: in un episodio in particolare, ha ricordato Quartz, Xi fu costretto a sfilare per strada con in testa un pesante cappello di metallo a forma di cono, mentre la folla gli gridava: “Abbasso Xi Jinping”. Tra la folla c’era anche sua madre.

 

Per questo il meeting di giovedì e venerdì a Mar-a-Lago tra i due leader è visto come l’incontro tra due opposti che inevitabilmente rischiano di allontanarsi, e che nonostante questo hanno bisogno l’uno dell’altro per far funzionare la relazione bilaterale più importante del mondo. Di questa relazione, John Pomfret è uno dei massimi esperti. Tra i primi americani a sbarcare in Cina negli anni Settanta, dopo il disgelo di Nixon, Pomfret ha lavorato in Cina come giornalista fino a quando, nel 1989, fu cacciato per aver raccontato i massacri di piazza Tiananmen. E’ rientrato in Cina negli anni Novanta come capo del bureau del Washington Post a Pechino, ed è l’autore di “The Beautiful Country and the Middle Kingdom”, libro da poco uscito sulle relazioni tra Stati Uniti e Cina dal 1776 a oggi. “Possiamo supporre che Xi non vada d’accordo con Trump, ma certamente farà tutto ciò che è in suo potere per essere tollerante e mantenere i rapporti a un livello cordiale. I cinesi non vogliono avere una cattiva relazione con l’America”, dice al Foglio Pomfret. “Piuttosto, bisogna vedere che trattamento Trump riserva al collega cinese”. Tra i due estremi dell’accoglienza trumpiana, quella gelida riservata ad Angela Merkel e quella pomposa concessa a Shinzo Abe, per ora Xi sembra decisamente in direzione Abe: la location, per lo meno, è la stessa, e sembrano passati secoli da quando, in campagna elettorale, Trump diceva che avrebbe rifocillato Xi con gli hamburger di McDonald’s.

Xi è arrivato giovedì pomeriggio nella “Casa Bianca d’Inverno” di Trump, dopo un viaggio di stato in Finlandia. Lui e la moglie, l’ex cantante dell’esercito Peng Liyuan, hanno cenato nel club esclusivo con Donald e Melania, e venerdì i due presidenti inizieranno i meeting di lavoro. L’incontro è già stato definito come storico dai media, specie quelli occidentali, ma è probabile che da Mar-a-Lago arrivino più coreografia che decisioni e annunci nel merito. “Il meeting ha la funzione di far conoscere i due leader”, dice Pomfret. “Difficilmente Xi e Trump prenderanno decisioni storiche o faranno rivoluzioni nelle relazioni tra Washington e Pechino”. Nonostante questo, per entrambi le aspettative sono alte, e ogni gesto, dalla comunicazione non verbale alle smorfie di Trump ai muscoli tesi agli angoli della bocca di Xi è soppesato e valutato come una dichiarazione d’intenti diplomatica.

 

Da Nixon in avanti, gli incontri al vertice tra i leader degli Stati Uniti e quelli della Cina sono sempre stati programmati e organizzati con attenzione millimetrica a ogni dettaglio di protocollo. Il più recente, quello tra Barack Obama e Xi Jinping a Sunnylands, fu annunciato con mesi di anticipo e il programma delle attività era cronometrato al minuto. L’incontro tra Xi e Trump, invece, è stato confermato ufficialmente soltanto la settimana scorsa, e gli osservatori ancora si chiedono come passeranno il tempo i due leader, visto che in Cina il golf è stato bandito dalla guerra alla corruzione di Xi. Per questo, molti hanno definito l’incontro di questi giorni come una scommessa ad alto rischio che nessuno dei due leader può permettersi di perdere. “Quest’autunno Xi Jinping deve affrontare un nuovo processo di selezione della leadership al Congresso del Partito”, in cui tutti gli alti dirigenti comunisti dovrebbero essere sostituiti tranne lui e il premier Li Keqiang, dice Pomfret, “e saper gestire le relazioni con Washington è una parte importante delle sue responsabilità come segretario generale e presidente del paese”. Trump invece “ha bisogno di sembrare presidenziale di fianco a Xi Jinping, spera di convincere i cinesi a fare qualche annuncio spettacolare sull’acquisto di prodotti americani o su investimenti in infrastrutture negli Stati Uniti, ma soprattutto vorrebbe ottenere qualche concessione sui temi chiave della sua campagna, dal commercio alla Corea del nord”.

 

Entrambi i leader intendono usare la visita di stato di questi giorni per impostare il rapporto bilaterale da una posizione di forza, ma Trump parte in netto svantaggio. Lo stato di improvvisazione con cui è stato organizzato il meeting rischia di favorire gli abilissimi negoziatori cinesi, per una ragione fondamentale: “L’Amministrazione Trump non ha ancora una strategia cinese, e nessuno alla Casa Bianca ha deciso esattamente ‘how to deal with Xi’”, dice Pomfret. La guerra in corso nella West Wing tra i nazionalisti economici à la Peter Navarro, “che ha poca esperienza diretta di Cina ma ha opinioni molto forti”, e i moderati come Jared Kushner ha provocato una politica ondivaga e contraddittoria che ha indebolito la posizione negoziale americana. L’Amministrazione ha minacciato di negare la politica dell’Unica Cina e di inviare la flotta nel mar Cinese meridionale, per poi rimangiarsi la promessa ogni singola volta. Anche la minaccia di intervenire unilateralmente in Corea del nord non è davvero credibile, e il rischio è che “a forza di accumulare minacce non mantenute i cinesi inizino a vedere Trump come una tigre di carta, come un leader debole che non sa tenere fede alle promesse. E quando i cinesi smettono di rispettarti, iniziano a testare i tuoi limiti”, dice Pomfret. “Già adesso i media di stato sembrano inquadrare la visita in America come uno dei tanti viaggi di Xi intorno al mondo. L’agenzia di stampa Xinhua, nel suo comunicato ufficiale, ha citato prima la visita in Finlandia e poi l’arrivo in America come un passaggio quasi casuale”. Xi vorrebbe mostrare al mondo che l’America non è una superpotenza gemella da trattare da pari, ma uno dei tanti paesi con cui la Cina ha a che fare, e “Trump rischia di farsi imprigionare in una retorica in cui Pechino è il leader globale di un mondo in cui Washington ha perso importanza”.

 

E dire che Trump, in campagna elettorale, aveva individuato la natura del problema con la Cina. “La relazione tra Stati Uniti e Cina è sbilanciata, e da decenni è più favorevole a Pechino che a noi”, conferma Pomfret, che già nel suo libro, prima della vittoria di The Donald, scriveva che Washington dovrebbe applicare una politica più “transazionale” nei confronti di Pechino, non fare concessioni gratuite e richiamare i cinesi alle loro responsabilità. “Trump sembrava averlo capito, ma per ora non sta riuscendo a rendere questa relazione più reciproca e giusta. Anzi, si ostina ad affrontare il problema da un punto di vista unilaterale, quando l’unico approccio per affrontare il nazionalismo economico e il mercantilismo della Cina è quello multilaterale. L’America avrebbe bisogno dell’aiuto della Germania, dell’Italia, degli altri paesi dell’Asia, ma per ora Trump non sta facendo altro che alienare i nostri alleati”.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.