Foto LaPresse

Il talkismo in Francia fa rimpiangere il passato e sembrare Trump normale

Giuliano Ferrara

Nel dibattito televisivo per le elezioni presidenziali, la battaglia diventa quella tra i probabili e gli improbabili e gli altamente improbabili

Il talkismo è la malattia senile delle democrazie, e questo in Francia si vede benissimo (da noi siamo già nell’al di là della politica per “soli vedenti”, come avrebbe detto Sartori). Martedì sera per quattro ore le reti televisive all news hanno trasmesso un dibattito per le elezioni presidenziali del prossimo aprile-maggio tra tutti gli undici candidati che hanno raccolto le firme conquistandosi il posto in lista e il podio d’onore. Qui nella Grandeur si era abituati a lunghi e profondi dialoghi dell’incarnando presidente – “incarner la France” è il modesto compito che si attribuisce all’eletto – misticamente riunito con il suo popolo, e solo alla fine c’era un duello da èra televisiva controllata. Poi si è passati, un mesetto fa, al dibattito a cinque, i candidati maggiori (Macron, Le Pen, Fillon, Hamon, Mélenchon). E già queste primarie post-primarie-di-partito avevano rivelato che l’égalité famosa della Marianna era diventata totale omologazione di tutti con tutti: la barriera ideologica eretta da sempre contro l’estrema destra lepenista era caduta in un soffio, se vogliamo considerare un soffio tre ore e mezzo di chiacchiere molto bene impostate tra pretendenti improvvisamente tutti eguali di fronte alla Francia, Marine compresa, e dunque trionfatrice oggettiva della faccenda.

 

Martedì il talkismo ha mostrato molto altro. Già il presidente che “incarna” per sette anni e poi altri sette, il tempo di un regno, non esiste più perché con Chirac e il modernizzatore burino Sarkozy si è passati al Quinquennato, un mandato all’americana piccolo piccolo. E la battaglia diventa, per una posta in fondo minore, quella tra i probabili e gli improbabili e gli altamente improbabili. I sei candidati minori (undici meno i cinque maggiori fa sei) sono degli outsider e forse anche dei freak, in qualche caso, cioè bestioline simpatiche da circo mediatico. C’è quello che è stato funzionario con Mitterrand e Chirac (François Asselineau) e se la tira dall’alto del suo testone nazional-statale: via dall’Europa con procedura urgente. C’è quello, funzionario anche lui e candidato di carriera all’Eliseo con lo 0,25 per cento nel 2012 (Jacques Cheminade), che dice niente procedura, via dall’Europa subito con l’articolo 50, Frexit come Brexit, e dialogo esclusivo con Brasile, Cina, Africa, India eccetera.

 

C’è la capa di Lutte Ouvrière (Nathalie Arthaud, 47 anni), una difensora dei travailleurs che in confronto un Paolo Ferrero è un borghesuccio da salotto. C’è il gollista dissidente, un biondino antipatico e saccente che si pensa candidato quasi vero (Nicolas Dupont-Aignan). C’è Philippe Poutou in T-shirt, eleganza molto casual, il primo operaio candidato, operaio della Ford e fondatore del Nuovo Partito Anticapitalista, uno che parla a raffica e fa dell’anticapitalismo tenero, molto primitivo e balbuziente. Infine c’è uno bolso e fanfarone, lo hai appena incontrato a fare la spesa all’épicerie della strada accanto, che dice a sproposito ma sempre a inizio di frase “mes chèrs compatriotes”, come fosse già eletto (Jean Lassalle): è un deputato goffo ed esplosivamente demotico che intona canzoni popolari del colore locale per impedire le delocalizzazioni e ha fatto a piedi il Tour de France, numeri da circo più o meno mediatico. Capito il giro? Trump in confronto è uno quasi normale.

 

Il giornale dei borghesi, perché in Francia la borghesia è abbastanza evaporata ma il suo quotidiano, le Figaro, continua a difendersi con onore, esprime tutto il suo disgusto per la pagliacciata: trova repellente la performance di un gruppo di provincia che ricostruisce il mondo come si fa al caffè, e rimpiange i bei tempi andati.

  

Non ha tutti i torti. Ma alla fine la cosa va guardata con ottimismo e con un po’ di incoscienza. Questo paese si pensa e a giusto titolo come l’unica vera Repubblica, Svizzera a parte, nell’Europa delle monarchie. Una Repubblica nata nel Settecento, la prima, rinata dopo l’Impero e la Restaurazione nel 1848, fino al colpo di stato di Luigi Bonaparte o Napoleone addirittura III, e divenuta definitiva con la celebre III Repubblica che da fine Ottocento a oggi cederà il passo solo alla IV impotente e alla V République gollista superpotente. Si pensa, la gloriosa Francia, come incarnazione (aridaje) dell’universalismo politico e dei diritti, dell’uomo certo, ma soprattutto del cittadino, basamento di uno stato religiosamente onnipotente che subordina la chiesa e tutto il resto alla sua dimensione culturale e pedagogica. E c’è del vero e del pesante e del significativo, intendiamoci.

 

Ma ora bisogna rassegnarsi. La sinistra o gauche è in pezzi. Fillon sarebbe una continuità elegante ma piuttosto stanca, con un liquorino di correzione à la Thatcher. La Le Pen farebbe un disastro, ma nel dibattito con i pazzotici sembrava una moderata al loro confronto, con la sua tollerante proposta antieuropea di referendum affinché decidano i francesi. E Macron, carino, brillante, con una certa alterigia della gioventù studiosa e prima comunione, sembrava il più decente, sapeva anche difendersi, ma a forza di esser cortese e di dare ragione per buona educazione a tutti si è fatto sfottere da un energumeno (“Ma M. Macron, lei è sempre d’accordo con tutti!”), e i numerosi presenti senza eccezione hanno riso sotto i baffi.

  

In questa rassegnazione, con gollisti e socialisti, gli storici antagonisti, ridotti molto al di sotto del cinquanta per cento nei sondaggi del primo turno, e in questa deriva o ascesa del talkismo c’è però qualcosa di confortante o di divertente, a parte il fatto che ai comizi va un sacco di gente e le tifoserie sono vivacissime. Le democrazie non si lasciano ingessare, sentono come si dice il tempo, sono meteoropatiche, accolgono le variazioni atmosferiche e vi si adeguano. Una Francia allegramente sconclusionata, a meno che la cosa finisca per premiare il frontismo insidioso e poco promettente, può essere perfino una buona notizia, e nemmeno solo per i critici televisivi.

Di più su questi argomenti:
  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.