Il nuovo segretario di Stato Usa Rex Tillerson in visita a Seul (foto LaPresse)

Kim Jong-un a rischio

Cosa c'è dietro all'opzione militare di Trump contro la Corea del nord

Giulia Pompili

Il segretario di stato minaccia “un nuovo approccio”. Lo scontro con la Cina e il rischio di un nuovo Vietnam

Roma. “Tutte le opzioni sono sul tavolo”, ha detto venerdì il segretario di stato americano Rex Tillerson durante una conferenza stampa a Seul: “E stiamo valutando un nuovo approccio alla questione nordcoreana”. Parlando ai giornalisti al fianco del ministro degli Esteri sudcoreano Yun Byung-se, Tillerson ha spiegato che la politica della cosiddetta “pazienza strategica” con la Corea del nord “ha fallito”, e che l’America è pronta a considerare anche l’opzione militare, “se la minaccia si elevasse contro i militari americani o i nostri alleati”. E’ la prima volta dopo molto tempo che un segretario di stato americano parla esplicitamente di una “opzione militare” in Corea del nord. E’ un cambio di passo notevole per l’America: negli ultimi otto anni, Barack Obama ha cercato di costringere la Corea del nord ad abbandonare il programma missilistico e nucleare attraverso l’isolamento diplomatico e le sanzioni economiche. Obama ha seguito l’eredità di Bill Clinton, che il 4 agosto del 2009 andò perfino in visita ufficiale a Pyongyang per liberare due giornaliste americane detenute – una visita storica e molto criticata, perché avvenne soltanto quattro mesi dopo l’ordine di Kim Jong-il di uscire dai Colloqui a sei sul nucleare, stabiliti nel 2003. Nel frattempo le condizioni nella penisola e i rapporti tra gli attori principali dell’area sono molto cambiati. Anzitutto in Corea del nord non c’è più Kim Jong-il ma suo figlio Kim Jong-un, che da quando è in carica (dicembre 2011) non è mai uscito dal paese, e nessuno ha ancora capito che tipo sia, se sia aperto a una negoziazione (come lo era il nonno Kim Il-sung) oppure se sia disposto a tutto pur di “salvare” il kimilsungismo, l’ideologia che governa lo stato nordcoreano. Ogni ipotesi di negoziazione, finora, è fallita.

  

Negli ultimi dieci anni la capacità missilistica e nucleare della Corea del nord è aumentata oltre le aspettative degli analisti e, nonostante le sanzioni, i rapporti delle commissioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu dicono che Pyongyang riesce a trafficare armamenti con facilità. In pratica le sanzioni stanno funzionando poco. L’élite nordcoreana si trova in una posizione di forza tale da poter dire – come ha fatto Jo Jong-chol, portavoce nordcoreano alle Nazioni Unite – che il paese “non è interessato” ad alcun colloquio sull’abbandono del programma nucleare. “Basandoci sulle novità di venerdì, è certo che nemmeno l’America attualmente è interessata al dialogo”, spiega al Foglio Chad O’Carroll, fondatore di NK News, “l’ipotesi di un attacco preventivo in Corea del nord non è nuova, ma adesso sembra più possibile di altre. Sembra che l’Amministrazione Trump si stia affidando a un approccio basato sulla deterrenza e la minaccia”. Del resto la minaccia nordcoreana è ormai diventata routine: i test nucleari e anche quelli missilistici vengono da tempo effettuati senza l’allerta, il che rende rischiosa la navigazione (negli ultimi mesi almeno cinque missili balistici sono caduti nelle acque della zona economica esclusiva giapponese). Subito dopo l’assassinio con il gas nervino di Kim Jong-nam, fratellastro di Kim Jong-un, l’ex diplomatico nordcoreano Thae Yong-ho, ora cittadino sudcoreano, ha detto che Pyongyang possiede ingenti quantità di armi chimiche, e che l’episodio all’aeroporto di Kuala Lumpur dimostra che Pyongyang possiede anche i soldati capaci di trasportarle e maneggiarle con facilità.

 

Le parole di Tillerson arrivano il giorno prima del suo viaggio a Pechino, dove si fermerà per l’intero fine settimana. La Cina ha un ruolo cruciale nella penisola, perché Pechino non approva la minaccia nordcoreana, ma sin dal 2009 i rapporti commerciali tra i paesi sono fondamentali per la sopravvivenza stessa della Corea del nord. Tillerson venerdì ha chiesto alla Cina di fermare il suo violento boicottaggio contro la Corea del sud, accusata da Pechino di aver autorizzato l’istallazione del sistema antimissilistico americano Thaad. Un boicottaggio intrapreso contro la Corea sbagliata, ma per un motivo. Da questo punto di vista, la Corea somiglia sempre di più al Vietnam: se dovesse verificarsi un “attacco preventivo” nel paese, il vero scontro sarà tra la Cina – che non vorrà una caduta violenta del suo satellite nordcoreano e un afflusso di rifugiati incontrollato, ma non può nemmeno permettere di avere un alleato americano seduto sui suoi confini – e l’America che tenta di mantenere quel che resta della sua egemonia nell’area asiatica. 

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.