Geert Wilders e Marine Le Pen (Foto LaPresse)

E se la bolla dei populismi si sgonfiasse? Oltre il caso Olanda

David Carretta

Oggi si vota nei Paesi bassi, alla vigilia calo di Wilders (e nuovi scontri con Ankara). Le crisi negli altri paesi

Bruxelles. I populisti ci sono e resteranno una costante della politica europea, alimentando la frammentazione e rendendo più difficile la formazione di governi stabili, ma l’andamento del Partito della Libertà di Geert Wilders (Pvv) nei sondaggi sul voto di oggi in Olanda suggerisce che l’onda populista non per forza è destinata a travolgere l’Unione europea. Le ultime rilevazioni delle intenzioni di voto dicono che il leader anti islam e anti europeo è lungi dall’avere la forza elettorale necessaria a formare il governo all’Aia e, probabilmente, anche dal realizzare il suo obiettivo di diventare il primo partito. Il suo Pvv, tra novembre 2016 e febbraio 2017, sembrava sul punto di conquistare tra i 30 e i 36 seggi, distanziando significativamente il partito liberale di destra del Vvd del premier Mark Rutte e tutte le altre formazioni europeiste. Dopo due mesi di campagna e malgrado circostanze favorevoli come il conflitto diplomatico con la Turchia, tutti i sondaggi oggi danno per scontato il sorpasso dei liberali. Ma non solo. Secondo l’ultima rivelazione di I&O Research prima del voto, il Pvv dovrebbe arrivare al quinto posto, fermandosi a 16 seggi. Wilders sarebbe battuto non solo da Rutte, che è accreditato con 27 deputati, ma anche dai liberali di sinistra dei D66 (20 seggi), dai Verdi di GroenLinks (20) e dai cristiano-democratici del Cda (19). Anche se con tonalità diverse, questi quattro partiti sono tutti europeisti. Se si sommano i deputati dei laburisti della PvdA – una dozzina secondo I&O Research – gli europeisti domani sera avranno una solida maggioranza intorno ai 150 deputati della Tweede Kamer all’Aia.

 

Con la Brexit e l’elezione di Donald Trump, il 2016 ha insegnato che i sondaggi sono inaffidabili e che in quest’epoca la gente vota più con la pancia che con la testa ma non lo dice ai telefonisti degli istituti di ricerca. Del resto, altri sondaggi continuano a dare Wilders al secondo posto, a pochi seggi di distanza da Rutte. Ma alla fine chi in Olanda vuole uscire dall’Ue, cacciare i marocchini e vietare il corano è minoritario. I livelli del Pvv sono più o meno gli stessi del 2010, quando Wilders fece il suo primo botto elettorale facendo campagna contro l’islam e rivendicando l’eredità di Pim Fortuyn, il libertario che aveva deciso di battersi per difendere l’identità liberale olandese minacciata dal multiculturalismo, prima di essere ucciso da un estremista ambientalista. In questi sette anni, la bolla Wilders si è gonfiata e sgonfiata a seconda delle contingenze. Nel 2012 il Pvv era sceso al 10 per cento, dopo aver tolto l’appoggio esterno al primo governo Rutte per l’opposizione alla riforma delle pensioni. Alle elezioni europee del 2014, il Pvv è arrivato terzo, dietro agli europeisti dei D66 e della Cda. La crisi dei rifugiati del 2015 e il “no” degli olandesi al referendum del 2016 sull’accordo di associazione tra Ue e Ucraina hanno rilanciato le fortune di Wilders. Ma a Rutte è bastato ricorrere a toni un po’ più duri sugli immigrati che non si assimilano per rimettere a posto il populismo.

 

Il genio del populismo non tornerà nella bottiglia, ma è in difficoltà in altri paesi europei. Quello di estrema sinistra in Grecia, Alexis Tsipras, è logorato dalla prova di due anni di potere: secondo i sondaggi, Syriza ha meno della metà dei voti dei conservatori di Nuova Democrazia e le minacce contro l’Ue non funzionano più per stuzzicare l’orgoglioso popolo greco. Quello di sinistra in Spagna, Podemos, si è diviso sulla strategia più o meno radicale da seguire: Pablo Iglesias ha vinto il suo ultimo congresso, ma sta perdendo la possibilità di andare al potere per la sua linea estremista. Quello di destra in Danimarca e Finlandia subisce i contraccolpi di una partecipazione più o meno attiva al governo: a Copenaghen i sondaggi dicono che il Partito del popolo danese perde consensi causa appoggio esterno al governo liberale, mentre a Helsinki il ministro degli Esteri Timo Soini ha appena dato le dimissioni da leader dei Veri Finlandesi. Quello di estrema destra in Germania, Alternativa per la Germania, è in difficoltà da quando l’afflusso dei rifugiati è rallentato e i socialdemocratici della Spd hanno scelto un leader, Martin Schulz, dalla retorica popolare al limite del populismo. L’eccezione sembrano essere Francia e Italia, dove il Front National di Marine Le Pen e il Movimento 5 stelle contendono il primo posto ai partiti tradizionali, con percentuali vicine al 30 per cento.

 

Se l’Olanda è un laboratorio della politica nell’Ue e nei suoi stati membri, gli elementi che dovrebbero far scattare l’allarme oggi sono diversi dal populismo, a cominciare dalla frammentazione e dal disfacimento de socialismo europeo. Nessun partito sembra in grado di superare il 20 per cento. La classe media progressista che un tempo votava per i laburisti – il PvdA dovrebbe subire un tracollo passando dal 25 per cento a meno del 10 per cento – si è buttata verso i D66 e i GroenLinks. Quella del prossimo primo ministro olandese sarà una mega coalizione tetra o pentapartito. Oppure un governo di minoranza, che dipenderà dagli umori di questo o quel leader di partito. I negoziati per la formazione dureranno mesi. La durata rischia di essere molto limitata. I sintomi della frammentazione generata dall’ingresso dei populisti e dal disfacimento dei vecchi partiti colpiscono altri paesi. In Spagna, Portogallo e Danimarca governi di minoranza di destra e di sinistra faticano a far approvare le leggi di bilancio. In Germania, l’ingresso di Afd al Bundestag e il ritorno dei liberali della Fdp renderanno più difficile un’alternativa alla Grande coalizione. In Austria, popolari e socialdemocratici sono stati spazzati via alle ultime presidenziali. In Francia, con il consolidamento del Front National e l’emergere di Emmanuel Macron con il suo En Marche!, potrebbe non esserci una maggioranza presidenziale nella prossima Assemblea nazionale. In fondo, il laboratorio Olanda mostra che la malattia della politica europea sta più nelle capitali che a Bruxelles.

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