Una manifestazione per l'anniversario della rivoluzione del 2011 a piazza Tahrir (foto LaPresse)

Che aria dimessa si respira al Cairo. Lo spettro della rivolta del pane

Redazione

Il blues egiziano dei giovani che hanno perso il filo della rivoluzione: “Meglio così che come la Siria”. Una nuova “depressione politica”

Il Cairo. A mezzo chilometro dall’aeroporto del Cairo c’è un posto di blocco. Fermano le automobili a caso. Il tassista scende lamentandosi, documenti in mano. Ci vogliono venti minuti prima che torni. La coda disordinata per accedere alla sicurezza, prima dell’area del check-in, inizia fuori dalla hall dell’aeroporto. Il clima di tensione non affiora soltanto lì: una, due, tre… ventuno transenne blu della polizia davanti a una chiesa copta nel quartiere centrale di Zamalek, sabato notte, in previsione della messa della domenica. Gli attentati che hanno colpito l’Egitto negli ultimi anni, dall’esplosione a bordo di un aereo russo in partenza da Sharm el Sheikh nel 2015 alla strage in una chiesa copta a gennaio, hanno cambiato volto al paese.

 

Il Cairo che si affida all’ex generale Abdel Fattah al Sisi per combattere violenza ed estremismo islamico e accetta suo malgrado il crescere della repressione politica e la cattiva gestione economica ha perso quell’aria gaia e spensierata “nonostante tutto”. Il ritornello offerto dal governo e ripetuto più o meno ironicamente da giovani e meno giovani è: “Meglio così che finire come la Siria”. E la questione è chiusa. Oggi i ragazzi che nel 2011 hanno invaso piazza Tahrir e poi perso il filo della rivoluzione tacciono per paura della repressione, dice Hania Moheeb, giornalista e attivista: “Il nuovo dibattito è nella relativa sicurezza dei social media, dove all’attivismo politico si è sostituito un inedito senso civico: gruppi di animalisti, discussioni sull’ambiente, sulla sostenibilità delle città, sulla raccolta differenziata”. “Non ho mai visto una situazione peggiore: le violazioni, l’impunità, l’atteggiamento di sprezzo della polizia”, ha detto al Guardian Aida Seif al-Dawla, fondatrice del Nadeem Center for Rehabilitation of Victims of Violence, chiuso dal governo poche settimane fa. Il centro ha contato nel 2015 500 morti per abusi della polizia, 630 individui scomparsi nella prima metà del 2016, tra cui il ricercatore italiano Giulio Regeni, ritrovato cadavere al Cairo poco dopo essere sparito nell’anniversario della rivoluzione.

 

 

Il senso di sconfitta che ha seguito la rivolta è rafforzato da un sentimento che nulla in Egitto può cambiare, neppure dopo una rivoluzione. Il sito Mada Masr, uno dei pochi media rimasti indipendenti, ha parlato di “depressione politica” per descrivere uno stato di abbattimento collettivo, utilizzando un concetto sviluppato dal Public Feelings Project dell’Università del Texas. A contribuire a questo senso di depressione tra gli attivisti è la sorte di oppositori politici, giornalisti finiti in prigione, la sensazione d’essere costantemente sotto controllo. E se un tempo, prima del caso Regeni, gli stranieri non si facevano problemi a parlare di politica del paese, ora affrontare temi sensibili mette a disagio. “La sensazione d’essere sempre controllati è pesante”, spiega un uomo d’affari straniero. Non è soltanto il fallimento politico di una generazione e l’ombra della repressione a mettere il “blues” al Cairo e al paese.

 

La svalutazione della lira ha dimezzato il potere d’acquisto delle famiglie. Se 5.000 lire in banca l’anno scorso erano circa 600 euro, ora sono 300. L’economia è azzoppata dalla rivolta, dagli attacchi terroristici al Cairo e nel Sinai, troppo vicini alle spiagge del divertimento straniero, e fatica nonostante le donazioni del Golfo. Un piano di aiuti del Fmi impone riforme che potrebbero avere un peso sul delicato equilibrio sociale. Il governo è costretto a toccare sussidi energetici, su olio da cucina, zucchero, pane grazie ai quali vivono 70 milioni di egiziani. Tra lunedì e martedì, centinaia di persone sono scese in strada in diverse zone dell’Egitto alla notizia che la razione di pane ottenibile attraverso la carta statale con cui le famiglie più povere portano a casa ogni giorno cinque pagnotte potrebbe scendere a tre. “Intifada del Pane”, “Intifada delle Provvigioni” erano gli hashtag più di tendenza martedì sera, mentre il governo si affrettava a smentire la notizia. L’ultima volta che un presidente ha cancellato i sussidi – era Anwar el Sadat nel 1977 – la popolazione invase le strade, ci furono giorni di scontri e 79 morti. Pochi mesi fa, con la carenza di valuta estera e la difficoltà nelle importazioni, nelle botteghe del paese sono rimasti vuoti gli scaffali dello zucchero.

 

Le buone notizie arrivano, ma ci vorrà tempo perché siano sentite dalla popolazione: l’attività economica del settore privato non energetico ha avuto la massima crescita dal 2014 in questi giorni. L’economia è ancora in contrazione, ma la svalutazione della lira a novembre ha smosso la domanda esterna, ha scritto Bloomberg. A mancare, però, è ancora la fiducia dei turisti. In questo clima di malessere, i serrati controlli all’aeroporto del Cairo hanno a che vedere anche con le ispezioni russe. I russi, dopo l’esplosione dell’aereo della Metrojet nel 2015 – 224 morti, terrorismo per Mosca – hanno prima bloccato i voli di linea verso il paese, poi hanno negoziato con il Cairo il ritorno degli aerei contro controlli con uno standard adeguato ai parametri della Russia, che ha mandato osservatori nello scalo e deciderà a breve sulla riapertura della tratta. Dopo l’esplosione del volo, il ministero del Turismo egiziano ha parlato di perdite pari a 173 milioni di dollari in un paese in cui l’industria turistica rappresentava nel 2015 il 11,4 per cento del pil. Quell’anno, il 67,9 per cento degli stranieri in vacanza in Egitto era russo.

Di più su questi argomenti: