Donald Trump (foto LaPresse)

Nessun'azione di vera rottura nella politica estera trumpiana

Gianni Castellaneta

L’iperattivismo del presidente sulla scena internazionale nasconde una cautela di fondo. Gli sviluppi possibili

E’ passato già un mese dall’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca e non si può certo dire che i primi trenta giorni del presidente tycoon siano stati noiosi. Tra l’emanazione di ordinanze eclatanti ma dai risvolti incostituzionali (come l’“editto” contro gli stranieri provenienti da alcuni paesi musulmani) e la disinvoltura con cui l’uomo più potente della Terra ha commentato complicati scenari mondiali, The Donald non è senz’altro rimasto con le mani in mano e si è mostrato molto attivo anche sulla scena internazionale, nonostante le premesse della vigilia lasciassero presagire un sostanziale disinteresse per quanto accade oltre i confini degli Stati Uniti. Una domanda però sorge spontanea: siamo di fronte all’elaborazione di una nuova politica estera oppure possiamo definire le esternazioni di Trump come molto rumore per nulla? In realtà, a ben vedere, alle prime dichiarazioni non hanno fatto seguito azioni di vera rottura. Si potrebbe dire che l’iperattivismo di Trump sulla scena internazionale nasconda una sostanziale cautela che potrebbe anzi lasciare spazio a un progressivo disimpegno dalla tradizionale proiezione che gli Stati Uniti hanno mantenuto a livello globale. Ed è così, ad esempio, che, dopo aver parlato al telefono con la presidente di Taiwan commettendo un maldestro (in apparenza?) sgarbo diplomatico nei confronti della Cina continentale, il presidente si è poi affrettato a ribadire la consueta politica della “One China”, che prevede il solo riconoscimento ufficiale di Pechino. In maniera più o meno simile, dopo settimane di lusinghe nei confronti di Putin, è bastato un tweet dell’inquilino della Casa Bianca per ribadire – con toni certo poco diplomatici – la linea dura verso Mosca in seguito all’annessione illegale della Crimea, che è stata letteralmente “presa” (taken nel linguaggio originale) dalla Russia. E si può continuare con l’atteggiamento verso l’Alleanza Atlantica: al recente Vertice di Bruxelles, il vicepresidente Mike Pence ha ribadito la centralità del ruolo statunitense per il proseguimento dell’integrazione difensiva, richiamando comunque i partner europei a un maggiore impegno.

 

L’incontro con Netanyahu

 

Che dire poi delle conseguenze relative all’incontro bilaterale più importante avuto da Trump fino ad ora, quello con il primo ministro israeliano Netanyahu? Le attese della vigilia lasciavano presagire un nuovo corso dirompente della politica di Washington nei confronti della questione israelo-palestinese, con il conferimento del ruolo di ambasciatore a un estremista come David Friedman, intenzionato a trasferire la rappresentanza diplomatica da Tel Aviv a Gerusalemme. Ricevendo Bibi Netanyahu, Trump si è dichiarato sostanzialmente indifferente rispetto alla soluzione dello Stato unico o dei due stati (Israele e Palestina), purchè i diretti protagonisti siano d’accordo. Un’affermazione che ha dato l’impressione di cancellare in pochi secondi un ventennio di sforzi diplomatici, a partire dallo storico incontro a Washington nel 1993 tra Rabin e Arafat suggellato da Bill Clinton.

 

In realtà, le parole di Trump sono state anche in questo caso rivolte più ai suoi elettori che finalizzate ad avere un reale seguito pratico. Con un’affermazione “pilatesca”, il presidente ha accontentato Bibi e la parte più conservatrice della comunità ebraica americana senza troppo inimicarsi quella largamente maggioritaria (più liberale) e senza sottovalutare allo stesso tempo le fasce più giovani che, per ragioni anagrafiche, sono meno interessata alle vicende israeliane. Un atteggiamento che congela di fatto il ruolo americano e lascia a Netanyahu la responsabilità di adoperarsi per un accordo che, allo stato dei fatti, appare impossibile da raggiungere. Non solo per la scontata opposizione araba ma anche per la difficolta di affrontare il dilemma di uno stato di Israele che sia al tempo stesso unico, democratico e legato ai princìpi dei fondatori scampati alla Shoah ed alle persecuzioni.

 

L’impegno di Bruxelles

 

Tornando invece all’Europa, Trump ancora una volta ha indirettamente chiamato i partner del Vecchio Continente a un maggior impegno internazionale con la finalità di conseguire un ordine globale che sia meno conflittuale di quello attuale. Al Vertice Nato, la partecipazione di Pence ha indubbiamente fatto sì che i toni del dibattito fossero amichevoli e coincidessero con una conferma dell’impegno statunitense nell’ambito dell’Alleanza, ribadito poi sia da Mattis, segretario alla Difesa, sia da Tillerson, segretario di stato.

 

Nel suo discorso di Monaco, che ha rassicurato gli altri leader e soddisfatto la padrona di casa Merkel, il vicepresidente ha richiamato i partner europei a una maggiore assunzione di responsabilità nel chiedere di onorare l’impegno di allocare entro il 2024 il 2 per cento del Pil per la spesa alla Difesa. Una richiesta tutto sommato ragionevole e che dovrebbe essere accolta come uno sprone positivo per l’Unione europea se vuole portare avanti il progetto di una strategia difensiva comune per far fronte alle sfide in arrivo dal Mediterraneo e dalla Russia. Quindi, non necessariamente questo “nuovo corso” nelle relazioni internazionali intrapreso da Trump porterà effetti negativi o pericolosi per la sicurezza mondiale. Un’America più conservatrice e riluttante a mettersi in gioco in situazioni che non costituiscano un pericolo diretto per la propria sicurezza nazionale lascia ampi spazi a quei paesi europei che vorranno – e sapranno – occuparli. Tra di essi, c’è ovviamene anche l’Italia: se ne parlerà al G7 di Taormina, ed a quello preparatorio dei ministri degli Esteri, guarda caso proprio in occasione del primo viaggio del presidente in Europa. Un’altra occasione per tornare a contare nel mondo, a dispetto di scissioni, congressi, fusioni, soglie di sbarramento, e quant’altro sembra monopolizzare lo sterile dibattito politico interno.