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La storia di un treno cinese in Gibuti mostra il cammino da superpotenza di Pechino

Eugenio Cau

Cosa dicono i sei anni e i quattro miliardi di dollari di investimenti (dalla Cina) per coprire i 750 chilometri da Gibuti ad Addis Abeba

Roma. Il treno Gibuti-Addis Abeba percorre 750 chilometri ed è il primo del suo genere. La nuovissima linea ferroviaria è stata inaugurata lo scorso mese tra grandi feste, alla presenza di dignitari di mezza Africa e di personaggi famosi, e ospita il primo treno elettrico del continente che attraversi più di uno stato. La sua costruzione ha richiesto sei anni e quattro miliardi di dollari di investimenti, ed è un’opera interamente cinese. Dalla Cina sono arrivati centinaia di ingegneri, cinesi sono le tecnologie e i materiali, cinesi sono i denari, prestati in gran parte da banche legate allo stato. Il New York Times ha raccontato ieri la storia del nuovo treno del Gibuti, che è solo una delle infinite infrastrutture che la Cina ha finanziato e costruito nel continente africano (oltre che in America latina, nel sud-est asiatico e così via). Nel solo Gibuti, scrive il New York Times, Pechino ha promesso 14 miliardi di dollari in finanziamenti, per costruire tre porti, due aeroporti, un sistema di condutture per portare l’acqua dalla vicina Etiopia e una centrale a carbone, oltre ovviamente al treno elettrico. Se estendiamo lo sguardo a tutto il continente, l’investimento cinese è magniloquente: circa 50 miliardi di dollari ogni anno per costruire grandi opere in Africa, una cifra che fa impallidire gli aiuti occidentali e che dà la dimensione dell’opera gigantesca di diplomazia infrastrutturale – in questo caso diplomazia ferroviaria – che Pechino ha avviato a livello globale: perfino in occidente, dove saranno società cinesi a costruire i vagoni delle metropolitane di Chicago e di Boston. In Africa, però, l’intervento di Pechino assume una dimensione gigantesca.

 

Molti paesi del continente dipendono ancora per il loro sviluppo dagli aiuti stranieri, e se quelli occidentali arrivano in borse tenute strette da funzionari governativi, da ong ed enti benefici, e soprattutto sono elargiti dietro pesanti condizioni di rispetto della democrazia e dei diritti umani, gli investimenti cinesi, è noto, sono politicamente agnostici. Soprattutto, arrivano sotto forma di segni tangibili di ricchezza e di sviluppo economico: non pelosi e burocratici progetti della Fao, ma centrali elettriche, ferrovie, autostrade. Certo, ci sono problemi anche con i cinesi. In molti paesi, per esempio, si sono verificate proteste dei lavoratori locali perché nella costruzione delle opere erano impiegati esclusivamente o quasi operai cinesi (non è successo così per la ferrovia del Gibuti), e alcuni governo temono di non poter ripagare i prestiti delle banche cinesi. Spesso, inoltre, Pechino è stata troppo arrischiata nell’elargire soldi e infrastrutture: in molte zone del mondo, per esempio in Venezuela, la Cina ha perso miliardi di dollari in investimenti che non hanno ripagato come avrebbero dovuto. Ma in quest’èra trumpiana di “America First”, i denari cinesi sono sempre più i benvenuti.

 

La diplomazia infrastrutturale cinese però non è semplice elargizione di grandi opere. Pechino vuole creare dei mercati fiorenti per le sue esportazioni, certo, ma anche degli alleati geostrategici docili. Anche qui il treno Gibuti-Addis Abeba è l’esempio perfetto: il piccolo Gibuti domina infatti Bab el Mandeb, lo stretto tra il Corno d’Africa e lo Yemen che è una delle vie d’acqua più trafficate e importanti del mondo. Qui la Cina ha mosso la sua prima pedina della sua strategia di dominio delle acque, installando l’anno scorso la sua prima base militare all’estero. E’ un pattern consolidato, che il Financial Times ha raccontato lo scorso mese: da Colombo, in Sri Lanka, al porto greco del Pireo in Grecia fino al Gibuti, agli investimenti in porti commerciali seguono stanziamenti di soldati, visite o esercitazioni della marina cinese. In Gibuti c’è anche una delle basi militari americane più importanti della regione, da cui sono partiti  i marine coinvolti nella prima, fallimentare missione ordinata da Trump in Yemen. Anche l’Italia ha una base lì. Ma nessuno è accolto con tante feste quanto i cinesi e i loro treni con aria condizionata.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.