Trump nomina Neil Gorsuch nuovo giudice della Corte Suprema (foto LaPresse)

Il legal drama di Trump. Così la nomina di Gorsuch alla Corte Suprema mette in difficoltà i liberal

Il presidente americano punta su un giudice con un curriculum “al di sopra di ogni sospetto”, che rifugge dall'attivismo giuridico come il predecessore Scalia

L’angolatura scelta da Donald Trump per introdurre Neil Gorsuch, il giudice della Corte suprema nominato ieri sera per prendere il posto di Antonin Scalia, spiega il ragionamento tattico della Casa Bianca. Trump non ha insistito sulle consonanze fra il giudice e i milioni di elettori che lo hanno votato sostanzialmente per questa nomina, magari turandosi il naso su tutto il resto, e ha esaltato con moderazione la continuità con il giudice Scalia. Ha valorizzato invece con forza il curriculum “al di sopra di ogni sospetto” di questo 49enne educato alla Columbia, Harvard e Oxford – anche lui della classe del 1991 ad Harvard, come Obama – e si è dilungato sulla competenza, sull’integrità, sul rigore, sulla sorprendente assenza di controversie attorno alla sua figura, sul consenso unanime accordato dai senatori nel 2006, in occasione della sua nomina a giudice federale. Ha articolato, insomma, i motivi per cui i senatori democratici che si preparano alla grande battaglia farebbero bene a ripensarci, per evitare di spararsi sui piedi lanciandosi in un’opera di ostruzionismo ideologico contro il bersagli sbagliato. Durante la presentazione nella East Room, Gorsuch si è mosso sullo stesso canovaccio, insistendo sul suo freddo credo originalista e testualista, quello che interpreta la Costituzione come un teso “morto, morto, morto” (copyright Scalia) e rifugge ogni attivismo giuridico. Ha offerto anche una versione della massima cara al togato morto lo scorso anno: “Un giudice che è contento di ogni conclusione a cui arriva è molto probabilmente un pessimo giudice”. Più che il debito verso Scalia, esplorato ampiamente in questi giorni di speculazioni in vista dell’annuncio in stile reality, è stato il suo rapporto con Anthony Kennedy, il conservatore “swing” che ha dato al mondo liberal momenti di gloria, ad aleggiare sulla nomina. In condizioni normali, Gorsuch andrebbe verso una conferma con il sorriso. Ma chi se le ricorda più le condizioni normali?

 

Gorsuch non era la prima scelta dei lealisti di Trump. Jeff Sessions, il procuratore generale in attesa di conferma, preferiva William Pryor. La sorella del presidente, Maryanne Trump Barry, raccomandava il collega Tom Hardiman, che poi è arrivato in finale in questo episodio di “The Apprentice” in versione legal drama. Entrambi sono stati giudicati troppo ideologici per poter mettere in difficoltà i democratici, che ora devono scegliere fra le barricate e il patto con il diavolo. Una delle inclinazioni giuridiche del prescelto che Trump guarda con grandissimo interesse è quella che lo ha portato a mettere in dubbio l’autorità delle agenzie di regolamentazione nell’interpretare le leggi. In diverse occasioni Gorsuch ha indicato che a un giudice, e non a un’agenzia federale, spetta il diritto di interpretare i meandri ambigui della legge. Il caso più noto è Hugo Rosario Gutierrez-Brizuela v. Loretta E. Lynch, dove il giudice ha messo in dubbio la legittimità di una sentenza del 1984 che affidava il potere interpretativo agli enti federali e contro il litigante, Chevron. La “Chevron deference” è diventato nello slang giuridico il trasferimento ai tribunali, e a discapito degli apparati burocratici, di un maggior potere decisionale in caso di dispute. Avere un giudice con questo atteggiamento fa gola al presidente con mastodontici conflitti d’interesse.

 

Per dieci anni Gorsuch ha fatto l’avvocato in una boutique legale di Washington, guadagnandosi la reputazione di difensore delle grandi corporation contro l’interesse dei lavoratori che ora i democratici usano per criticarlo. Ma la questione infiammata, il litmus test che permette di afferrare le inclinazioni ideologiche, è l’aborto, e su questo la posizione di Gorsuch, episcopaliano educato dai gesuiti, non è semplice da inquadrare, non essendosi espresso in sentenze rilevanti sul tema. Quello che si sa sulla questione è dedotto da alcuni testi di natura non giuridica, come il suo libro “The Future of Assisted Suicide and Euthanasia”, dove contrasta le ragioni per la legalizzazione del suicidio assistito dicendo che “la vita umana è fondamentalmente e intrinsecamente dotata di valore, e prendere una vita umana da parte di persone private è sempre sbagliato” e rifiuta anche le ragioni “libertarie”, basate sull’autodeterminazione e il primato della volontà. Un riferimento chiaro a favore della vita. Il paradosso è che per i pro choice Gorsuch è un pericoloso guerriero anti abortista, per i pro life non è abbastanza schierato per la vita. La presidentessa di Planned Parenthood, Cecile Richards, dice che ha una “allarmante storia di interferenze con i diritti riproduttivi e sanitari”, e allo stesso tempo Andy Schlafly, presidente del Legal Center for Defense of Life, lo ha messo nella lista dei candidati “inaccettabili” che la sua associazione fa girare da mesi fra i congressmen. Motivazione: “Ha scritto dell’aborto usando la terminologia della sponda pro aborto, senza fare mai alcun riferimento ai ‘bambini non nati’”.

 

Ora inizia la vera battaglia. Gorsuch dovrà passare il vaglio della commissione giustizia del Senato (facile: la maggioranza repubblicana non farà sorprese) e poi andare al voto dell’intera aula, dove serve la maggioranza qualificata di sessanta senatori per superare il “filibusteer” già promesso dai democratici. I repubblicani di senatori ne hanno soltanto 52, ma hanno un modo per aggirare l’ostacolo, ovvero il ricorso alla “nuclear option”, forzatura procedurale per annullare la necessità della maggioranza qualificata. E’ un’opzione impopolare e sgradita alla leadership repubblicana, ma per uno strano colpo del destino Mitch McConnell e soci possono fare appello al fatto che il precedente leader del Senato, il democratico Harry Reid, nel 2013 ha invocato la “nuclear option”. Non solo: l’ha usata proprio per cambiare le regole sulla conferma senatoriale delle nomine, abbassandole tutte al tetto della maggioranza semplice, tranne quelle della corte suprema. Se loro hanno cambiato le regole possiamo cambiare anche noi, è il ragionamento dei repubblicani, che però devono fare i conti con le defezioni interne. La senatrice Susan Collins, ad esempio, si è già chiamata fuori da questa battaglia di strettissimo respiro politico. Il capo dei senatori democratici, Chuck Schumer, ha dettato ieri sera il passo dell’opposizione: “A giudicare dalla sua storia, ho seri dubbi sulla capacità del giudice Gorsuch possa soddisfare gli standard richiesti. Gorsuch si è ripetutamente schierato con le aziende e contro i lavoratori, ha dimostrato ostilità verso i diritti delle donne e, cosa più preoccupante, aderisce a un approccio ideologico alla giurisprudenza che mi rende scettico sul fatto che possa essere un giudice indipendente e forte”. A questo giudizio s’è accodato l’intero spettro della sinistra, imbufalita per quello che giudicano un seggio sottratto alla decisione del legittimo presidente – Obama aveva scelto Merrick Garland, ma la sua nomina non è mai arrivata in Senato – e incalzata dagli agitatissimi gruppi movimentisti che coordinano la piazza anti Trump. Murshed Zaheed, capo del gruppo progressista Credo, ha fatto la sintesi: “Se qualcuno dei senatori democratici voterà a favore della nomina fatta da Trump alla corte suprema, sarà marchiato come collaborazionista”. 

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