Xi Jinping (foto LaPresse)

Nel gran vuoto lasciato da Trump, Xi Jinping si fa difensore della globalizzazione

Eugenio Cau

A Davos il presidente cinese esalta il libero mercato e scalda l’élite globalista attaccata dal presidente eletto. Le contraddizioni dell’ordine liberale e la diffidenza nei confronti di Pechino

La kermesse dell’élite globalista mondiale di Davos quest’anno ha accolto come ospite d’onore il presidente dell’ultima grande potenza comunista del mondo, il cinese Xi Jinping. In un’operazione che sottolinea al tempo stesso la portata ormai globale del soft power cinese e il riflusso protezionista che ha invaso tutto l’occidente ed è culminato con l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti, Xi è riuscito a presentarsi all’élite mondiale come l’ultimo vero bastione della globalizzazione e del libero mercato. Il fatto che sia il presidente cinese e segretario del Partito comunista a farlo è testimonianza dello stato di transizione e di contraddizione in cui si trova oggi l’ordine liberale occidentale.

Xi Jinping ha iniziato il suo discorso citando non Confucio, ma Charles Dickens: “Era il tempo migliore e il tempo peggiore” (in tutto il discorso, come è uso del presidente cinese, proverbi e detti orientali e occidentali si sono rincorsi l’un l’altro), e questo a indicare che, benché gli indicatori macroeconomici siano grandemente positivi a livello globale, “molte persone si chiedono: che cosa sta andando male nel mondo?”. Il colpevole di questa apparente confusione è stato individuato nella globalizzazione, che è passata da essere “la caverna dei tesori di Ali Babà” a “il vaso di Pandora” ricolmo di tutti i mali. Il punto del discorso di Xi è quello di ricordare a chi ha perso fiducia che la globalizzazione non è la causa dei problemi che oggi le economie mondiali devono affrontare.

Non è stata la globalizzazione a creare il malcontento che molte economie sviluppate stanno sperimentando, ha detto Xi, ma l’eccessiva “ricerca di profitto” e la cattiva regolamentazione dei mercati finanziari. L’economia mondiale ha bisogno di profonde riforme, certo, ma rispondere ai problemi rifiutando la globalizzazione e abbracciando il protezionismo peggiora soltanto la situazione. Xi ha citato anche il problema della diseguaglianza e ha invocato la necessità di aumentare l’innovazione come principale motore della crescita globale.

In una chiara risposta a Donald Trump, che ha fatto della Cina il suo principale obiettivo polemico durante la campagna elettorale e nei suoi mesi da presidente eletto, Xi ha attaccato il protezionismo, il quale, ha detto, è come rifugiarsi in una stanza sigillata: rimangono fuori il vento e la pioggia, ma anche l’aria e la luce del sole. Eliminare il continuo scambio di beni, persone e capitali tra le economie ormai non è più possibile, sarebbe come cercare di “far confluire le acque dell’oceano indietro verso laghi isolati”: tutto quello che possiamo fare ora è “avere il coraggio di nuotare nel vasto oceano del mercato globale”, anche se la Cina, ha detto Xi, “ha più volte rischiato di affogare”. “Nessuno riuscirà a vincere in una guerra commerciale”, ha detto il presidente cinese, aggiungendo – anche in questo caso in risposta a Trump – che Pechino non svaluterà lo yuan e non inizierà una guerra valutaria con l’America. “La Cina manterrà le sue porte aperte”, ha detto il presidente cinese in conclusione.

Preso testualmente, il discorso di Xi a Davos potrebbe sembrare quello di un grande leader liberale. Certo, la parola “democrazia” non è mai stata citata, ma se distacchiamo il dato politico da quello economico, le parole del presidente cinese non sarebbero suonate strane in bocca a Barack Obama. L’eccezionale manovra di soft power di Pechino può aver scaldato le élite, messe alla berlina da Donald Trump e tenute all’oscuro dei suoi piani, ma è facile vedere come fra le parole del presidente e la realtà dell’azione del governo cinese c’è uno iato ancora enorme. Non solo perché l’economia cinese è ancora in parte dirigista e chiusa, con dazi e sanzioni che vanno dall’importazione del cotone all’accettazione nel mercato cinese di un numero ridottissimo di film di Hollywood, ma anche perché le parole sagge del presidente cinese non devono far pensare che la Cina diventerà presto un motore d’integrazione globale.

Eppure nel grande vuoto liberale lasciato da Donald Trump, perfino Xi Jinping sembra un leader a cui affidare le sorti dell’ordine mondiale. A Davos, il presidente americano è stato il grande assente, il convitato di pietra con cui tutti hanno in ogni caso fatto i conti, e la variabile impazzita nei calcoli dei leader. La sua assenza – e contestualmente la presenza come ospite d’onore di Xi Jinping, primo leader cinese a partecipare a Davos – potrebbe essere il segno di un cambio della guardia e di una rivoluzione nei princìpi dell’élite globale, o piuttosto il segnale che ci attende un nuovo periodo di contrasti tra globalizzatori e non globalizzatori – con i valori liberali di democrazia e libertà messi da parte in ogni caso.

  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.