Foto LaPresse

L'intelligence italiana al lavoro su entrambi i fronti in Libia

Daniele Raineri

La settimana che ha sconvolto la Libia, dall’apertura dell’Italia all’arrembaggio russo al tentato golpe. I 5 giorni di Tripoli

Roma. Quella che è appena finita è stata una settimana decisiva per la Libia e va raccontata di fila perché di rado gli eventi si allineano in modo così simbolico e chiaro in quel paese, da dove di solito arriva uno spezzatino di notizie brevi, violente e confuse. Lunedì 9 gennaio il governo italiano ha deciso di scommettere in modo solenne sulla tenuta a Tripoli del governo libico di Fayez al Serraj, che esercita le funzioni di primo ministro anche se dal punto di vista formale non lo è ancora, perché avrebbe bisogno del riconoscimento dell’altra metà del paese – quella che risponde al governo di Tobruk, sotto il controllo del generale rivale di Serraj, Khalifa Haftar. E’ un dettaglio importante, ci torneremo dopo. Il ministro dell’Interno italiano, Marco Minniti, è atterrato quel giorno a Tripoli per stringere una serie di accordi in materia di sicurezza (anche l’immigrazione finisce in quella categoria) e il giorno dopo l’ambasciatore italiano Giuseppe Perrone ha presentato le credenziali a Serraj per riaprire l’ambasciata italiana (che nel periodo di limbo a partire dal febbraio 2015 è stata con discrezione tenuta in ordine e sorvegliata, in attesa di tempi migliori). Insomma: si spera ancora nel piano di riconciliazione nazionale libica annunciato nel dicembre 2014 a Roma e sponsorizzato da Washington e Roma quando il mondo era un posto diverso, c’era l’Amministrazione Obama, il segretario di stato era John Kerry e Hillary Clinton aveva ancora ottime possibilità di diventare presidente degli Stati Uniti.

 

Hillary aveva promesso a Serraj un appoggio incondizionato e protezione, anche con l’aiuto delle armi, in alcuni contatti sottobanco avuti durante la fase terminale della campagna elettorale, quando i candidati cominciano già a pensare come se avessero un piede dentro la Casa Bianca. Poi l’8 novembre ha vinto Trump e il 5 dicembre si è dimesso Matteo Renzi, e l’asse italo-americano che appoggiava Serraj è quasi scomparso. Certo, il posto di Renzi è stato preso da Paolo Gentiloni, che da ministro degli Esteri ha seguito da vicinissimo tutto il dossier libico e ha incontrato più volte Serraj – tanto che lo Stato islamico in Libia minacciava lui e non Renzi, quando nei video lanciava anatemi contro l’Italia – ma Gentiloni guida un governo a scadenza che non può avere ambizioni di politica estera a tempo indeterminato, deve amministrare la situazione.

 

Mercoledì 11, il giorno dopo la riapertura dell’ambasciata italiana a Tripoli, il generale Haftar e i militari russi hanno annunciato con uno show quello che tutti sapevano da tempo: il governo di Mosca vuole applicare alla Libia il modello già imposto in Siria, quindi promettere appoggio militare e diplomatico in cambio di influenza imperitura – le condizioni andranno esaminate, l’importante è che un’altra casella sia sottratta all’influenza occidentale. Lo scenario scelto per la massima resa pubblicitaria della nuova alleanza fra  Haftar e i russi è stato il ponte della portaerei Ammiraglio Kuznetsov, che aveva appena lasciato la costa della Siria, dov’era approdata a dicembre per una missione di propaganda finita male – alcuni porti si sono rifiutati di farla attraccare per rifornimenti in segno di protesta contro i bombardamenti ad Aleppo, i motori della nave emettono una colonna di fumo imbarazzante, e dei sei aerei che dovevano partire in missione da quel ponte due sono finiti in acqua, gli altri quattro hanno scelto con saggezza di decollare da una base sulla terraferma. Non importa, la Kuznetsov è l’ambasciatrice della potenza militare russa che conquista un’alleanza dopo l’altra nel quadrante mediterraneo e ogni genere di rumor in questi giorni s’intreccia e si rincorre con le notizie vere: per esempio, che i russi sono prossimi all’apertura di due basi sulla costa libica, dove faranno arrivare aiuti militari al generale Haftar quando – grazie al loro aiuto – l’embargo delle Nazioni Unite sulla Libia sarà sollevato. A bordo c’era anche il capo di stato maggiore, Valery Gerasimov, che è lo stesso che a settembre 2016 è volato in Turchia per parlare con i generali del presidente Recep Tayyip Erdogan – quell’incontro fu il segno definitivo della partnership turco-russa in Siria, che è tra i fattori che hanno portato a una svolta decisiva come la capitolazione di Aleppo est. Gerasimov, la portaerei Kuznetsov: Vladimir Putin in Libia sta dando fondo al repertorio che gli ha già assicurato un successo politico-militare in Siria. Se questa è la situazione, perché mai Haftar dovrebbe dare il via libera al riconoscimento di Serraj come primo ministro di tutta la Libia, e non, invece, provare a prenderne il posto?

 

Giovedì 12, milizie tripoline ma rivali del governo sponsorizzato dalle Nazioni Unite hanno approfittato della tempesta perfetta: Serraj era al Cairo a chiedere appoggio al presidente Abdel Fattah al Sisi (che però sta con Haftar), Gentiloni era in un letto d’ospedale, l’astro di Haftar brilla più che mai. Hanno tentato il golpe per la seconda volta in meno di tre mesi. Il Foglio ha anche ripreso la notizia del sito libico al Marsad sulla visita in città del capo dell’intelligence italiana, Alberto Manenti, interrotta dalle violenze, ma Giacomo Stucchi, presidente del Copasir (la commissione parlamentare che sorveglia le materie d’intelligence) ha smentito. Eppure, notizie di un ruolo dell’intelligence italiana ubiqua su entrambi i fronti, a Tripoli e Tobruk (lo dice lo stesso Haftar in un’intervista al Corriere: “Il numero due dei vostri servizi viene spesso da me in visita”) per tenere i canali aperti e mediare con tutte e due le Libie continuano ad arrivare – in questa fase che può preludere a una guerra civile.

Di più su questi argomenti:
  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)