Riluttanti contro l'Isis
Lo Stato islamico è in guerra con l’Italia, abbiamo soldati ovunque, ma non abbiamo fatto molto
Roma. Il capo della polizia Franco Gabrielli ha detto che nel nostro paese la sicurezza funziona, “ma anche noi prima o poi pagheremo un prezzo”, e quindi ci si aspetta un attentato come in altri paesi europei. Se questa è la valutazione, la domanda allora è: cosa abbiamo fatto in questo conflitto? L’Italia in guerra contro lo Stato islamico – come tutti, del resto – ha scelto finora un approccio morbido e preferisce occuparsi di ogni genere di attività di contorno piuttosto che delle operazioni di combattimento sostenute da altri paesi occidentali. In Libia il governo ha mandato un contingente militare-sanitario di circa 300 uomini che cura i feriti della città di Misurata, feriti però in una campagna per liberare la città di Sirte dagli estremisti che è finita un mese fa, nella prima settimana di dicembre. E’ una missione destinata a esaurimento naturale. In Libia facciamo anche un lavoro di intelligence disingenuo, un po’ dalla parte di Tripoli e un po’ assieme con i rivali di Bengasi, ma non amiamo le esposizioni o le circostanze che implicano operazioni di guerra.
Quando l’anno scorso gli alleati americani ci hanno chiesto di usare le basi in Sicilia per colpire lo Stato islamico in Libia con i droni, abbiamo imposto una clausola molto limitante: i droni possono colpire soltanto in alcuni casi d’emergenza, per esempio se a terra c’è una squadra delle forze speciali americane in pericolo. In Iraq c’è un nostro programma di addestramento militare – siamo considerati istruttori eccellenti – c’è la guardia alla diga di Mosul e ci sono le missioni di ricognizione aerea affidate a droni e caccia che decollano dal Kuwait, ma anche in questo caso c’è una scadenza, il territorio in mano allo Stato islamico si sta rimpicciolendo sempre di più e se Mosul, capitale di fatto dei terroristi, dovesse cadere nei prossimi mesi – come potrebbe accadere – anche la nostra presenza diventerà obsoleta. In Iraq come in Libia ci sono gli operatori delle forze speciali italiane, ma si parla di numeri bassi – cinquanta alla volta – e impiegati in compiti d’intelligence, non di guerra. Anzi, quelle forze sono poche, selezionate e già al limite operativo. In Afghanistan ci sono ancora circa 950 soldati italiani sotto le insegne Nato, ma per ora non si tratta di un impegno specifico contro lo Stato islamico – che pure sta tentando un’ escalation lenta anche in quel paese.
L’Italia in casa è severa con le espulsioni di soggetti pericolosi – sono quasi decuplicate negli ultimi due anni – ma si tratta di misure antiterrorismo da sistema immunitario nazionale, non di lotta contro lo Stato islamico. Questo impegno defilato non ci mette al riparo da attacchi, a partire dal 2016 la propaganda dello Stato islamico ci ha citato in molte occasioni e tutte queste citazioni e minacce si traducono poi davvero in attentati, come è accaduto in Francia, Belgio e Turchia – dove l’ordine di colpire è arrivato direttamente da Siria/Iraq – e in altri paesi, come l’America e la Germania, dove hanno agito soggetti con legami meno diretti. Siamo un paese che contiene bersagli simbolici e già annunciati – come Roma, centro della cristianità. Viviamo in una situazione di attesa strana, temiamo una strage, siamo al centro delle attenzioni dello Stato islamico, abbiamo militari in tutti i teatri di operazioni (Siria esclusa) – ma se un domani volessimo rispondere a un attacco in breve tempo non potremmo, perché ci siamo limitati a una partecipazione riluttante.
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