Usa, ultimo discorso di Barack Obama alla Casa Bianca (foto LaPresse)

La rancorosa uscita di scena di Barack Obama farà il gioco di Putin

Gianni Castellaneta

Il presidente uscente ha dismesso i panni da “anatra zoppa”, sfoderando due colpi imprevisti a Israele e Russia. In mezzo a questo gioco delle parti si trova l’Europa

Alla fine, anche la roccaforte democratica newyorchese, complice uno splendido sole invernale, pare aver metabolizzato lo choc per la vittoria dell’odiato Trump e guarda con fastidio alle ultime mosse di Obama, considerate velleitarie e intempestive. Il riflesso America First prevale e si attende  con impazienza che la nuova presidenza inizi. Un’altra peculiarità del sistema istituzionale americano, insieme a quella del collegio dei grandi elettori, è quella che consente al presidente uscente di mantenere i pieni poteri per altri due mesi dopo il risultato elettorale, incluso quello di avviare operazioni militari! Barack Obama, ben consapevole delle sue prerogative presidenziali fino all’ultimo giorno, ha dismesso proprio durante le festività i panni da “anatra zoppa”, sfoderando due colpi imprevisti. Dapprima ha ordinato che gli Stati Uniti si astenessero nel Consiglio di sicurezza dell’Onu dal porre il veto su una risoluzione di condanna nei confronti degli insediamenti israeliani in territorio palestinese, interrompendo de facto una prassi che vedeva Washington sostenere Tel Aviv senza indugi nell’ambito degli organismi multilaterali. Poi, il 29 dicembre, Obama ha annunciato una nuova serie di sanzioni rivolte principalmente contro i due principali servizi segreti russi, l’Fsb e il Gru, in quanto sospettati di aver effettuato attacchi di pirateria informatica nell’imminenza delle elezioni presidenziali.

Come si spiegano questi interventi dell’ultima ora del presidente uscente? E’ evidente che le due mosse non sono il preludio all’adozione di nuove linee di politica estera statunitense, non solo per il fatto che dal 20 gennaio ci sarà un nuovo inquilino alla Casa Bianca, ma anche perché i provvedimenti decisi da Obama hanno una valenza simbolica piuttosto che la finalità di impattare in modo strutturale e duraturo sulle relazioni bilaterali con Israele e Russia. Ci sembra chiaro che il presidente democratico stia cercando di mettere i bastoni fra le ruote a Donald Trump, che a breve si insedierà ufficialmente e in queste settimane ha già fatto presagire un “interessante” nuovo corso della diplomazia a stelle e strisce. In primo luogo, la nomina di David Friedman ad ambasciatore in Israele ha sollevato più di qualche perplessità nei confronti di un personaggio che non ha fatto mistero – tra le altre cose – di voler spostare la sede dell’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, cosa che inasprirebbe non poco gli umori dei palestinesi e del mondo arabo-musulmano in generale.

In secondo luogo, la scelta di nominare Rex Tillerson – ceo uscente della multinazionale del petrolio Exxon Mobil – a segretario di stato evidenzia la volontà di intraprendere un nuovo corso con la Russia, in considerazione dei più che buoni rapporti tra il futuro capo della politica estera statunitense e lo “zar” Putin. E’ chiaro, comunque, che la volontà di cambiamenti troppo arditi o repentini negli orientamenti delle relazioni internazionali di Washington dovrà fare i conti con le dinamiche attualmente in corso e che una rivitalizzazione nel breve periodo dello “spirito di Pratica di Mare” (quando dietro impulso di Berlusconi la Russia e la Nato stabilirono una partnership strategica) non è pensabile. Ecco dunque spiegata la finalità degli interventi a gamba tesa di Obama, tutti finalizzati alle vicende di politica interna e a rendere il più difficile possibile l’insediamento del suo ingombrante successore nelle istituzioni di Washington e forse a proteggere Hillary.

Riuscirà questo tentativo? L’impressione è che l’intera operazione sia piuttosto maldestra, proprio per le tempistiche in cui si svolge che ne rivelano le reali finalità: non dare una lezione agli hacker del Cremlino, ma fare andare di traverso il brindisi di Capodanno a Donald Trump. Qui negli Stati Uniti è opinione diffusa in questi giorni che i provvedimenti di Obama siano magari condivisibili nella sostanza, ma quanto mai inopportuni nella forma e nel timing. In effetti, rischiano non solo di rivelarsi del tutto inefficaci sul lato pratico – il nuovo presidente potrà fare marcia indietro – ma paradossalmente di fare il gioco dello stesso Putin, che in queste ore si è dimostrato magnanimo e attendista, e del primo ministro israeliano Netanyahu, che sta acquistando consensi a destra così come all’interno della comunità ebraica statunitense. Insomma, un pericoloso boomerang per Obama, che corre il rischio di uscire di scena nel modo peggiore possibile e di essere etichettato come un individuo “rancoroso” e quasi “dispettoso” ( ha anche affermato che con lui candidato i democratici avrebbero vinto), prestando il fianco ai suoi numerosi detrattori che in questi anni hanno evidenziato i limiti della sua politica estera troppo razionale e poco coraggiosa.

In mezzo a tutto questo gioco delle parti – fino al 20 gennaio aspettiamoci altri possibili colpi di teatro ma poche ricadute sul piano pratico – si trova l’Europa, come sempre assente e quasi dormiente. Mentre Putin, complici anche i provvedimenti maldestri di Obama, riesce sempre più a emergere e divulgare la sua immagine di leader apprezzato e riconosciuto per la fermezza ed efficacia della Russia in uno scenario drammatico come quello mediorientale, a Bruxelles e nelle altre capitali europee domina l’atteggiamento inerte che ha caratterizzato gli ultimi mesi e che, purtroppo con ogni probabilità, proseguirà anche nel 2017. Con elezioni chiave alle porte in Francia, Germania, e probabilmente anche in Italia, sarà molto difficile che l’Ue possa decidere di partecipare con una sola voce e in maniera concreta alla gestione della fase finale del conflitto in Siria. Mentre intanto Russia, Iran e Turchia hanno concluso un accordo che, come avevamo previsto, nel breve periodo consentirà a tutte e tre le potenze di proteggere i reciproci interessi nella regione con un compromesso che verte intorno al mantenimento al potere di Assad. Con il possibile placet di Trump alla situazione che si sta delineando, e dunque in vista di un progressivo disgelo tra Washington e Mosca, gli spazi per una politica estera più attiva degli stati europei (e dell’Italia in primis vista la nostra geopolitica) potrebbero essere decisamente più ampi. L’Europa che si appresta a compiere  sessant’anni di vita saprà dimostrarsi all’altezza di questa sfida nel 2017? La speranza personale rimane, a dispetto dello sguardo disincantato e realista del diplomatico di lungo corso.