Benjamin Netanyahu (foto LaPresse)

Perché Netanyahu è certo della “premeditazione” di Obama

Paola Peduzzi

I detrattori celebrano “la fine dell’impunità” del premier. Così è nata la clamorosa astensione di Washington contro Israele. La “kill zone” diplomatica di Barack

Milano. Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, non ha dubbi: l’Amministrazione Obama preparava da tempo la decisione “vergognosa” di astenersi al voto della risoluzione 2334 dell’Onu che condanna la politica degli insediamenti di Israele in Cisgiordania e Gerusalemme est. “L’Amministrazione Obama ha iniziato questo processo – ha detto il premier – l’ha promosso, l’ha coordinato e ha chiesto che passasse”. Washington fa sapere di non aver “premeditato” nulla, ma erano 36 anni che, in seguito al veto americano, non veniva approvata all’Onu una risoluzione di condanna dei settlement, e pochi pensano che si tratti di una decisione dell’ultimo minuto.

 

Di fronte alle tante bozze di risoluzione circolate all’Onu nell’ultimo anno, i diplomatici israeliani hanno definito gli ultimi mesi di governo di Obama una “kill zone”, racconta il Wall Street Journal: con la vittoria di Donald Trump, il presidente si sarebbe sentito libero di mostrare la sua politica reale – ostile – nei confronti di Israele. Grande preoccupazione aveva creato il discorso del 4 dicembre di John Kerry, segretario di stato.

 

 

Kerry aveva definito gli insediamenti “un ostacolo alla pace”, come è scritto anche nella risoluzione 2334. L’incontro, qualche giorno dopo, del segretario di stato americano con il capo dei negoziatori palestinesi, Saeb Erekat, ha convinto la diplomazia di Israele che fosse in corso una “collusione” contro Netanyahu tra americani e palestinesi. A ottobre, erano pronte due bozze di risoluzione: una di condanna degli insediamenti, l’altra di riconoscimento da parte dell’Onu dello stato palestinese. Secondo alcune fonti, i palestinesi hanno deciso di non presentare la seconda risoluzione perché sicuri del veto americano che risultava invece negoziabile sulla questione degli insediamenti, che da sempre divide l’Amministrazione Obama e il governo di Gerusalemme. Con la vittoria di Trump, s’è imposta un’accelerazione: ora o mai più, dicevano i diplomatici onusiani. A guidare l’iniziativa sulla definizione di “illegalità” degli insediamenti è stato l’Egitto, membro non permanente del Consiglio di sicurezza, che aveva “messo in blu” la risoluzione – pronta per il voto – mercoledì sera. A quel punto la tentazione di astenersi da parte dell’America è risultata chiara in Israele: Netanyahu (che è anche ministro degli Esteri) ha chiamato Kerry al telefono, senza ottenere alcuna garanzia (“gli amici non se la prendono con gli amici al Consiglio di sicurezza”), e così si è rivolto al futuro presidente Trump – in particolare al genero Jared Kushner e al superconsigliere Steve Bannon, ma nessuno conferma il loro ruolo – che è intervenuto su Twitter ribadendo la necessità del veto e ha telefonato al rais egiziano, Abdel Fattah al Sisi, chiedendo e ottenendo una proroga del voto. Ma di fronte al tentennamento dell’Egitto, Malesia, Nuova Zelanda, Senegal e Venezuela hanno preso in mano la risoluzione e organizzato il voto, passato con 14 voti a favore (compreso l’Egitto), zero contrari, l’astensione americana, un grande applauso e una spiegazione dell’ambasciatrice americana all’Onu, Samantha Power, del perché dell’astensione. Sintesi: Netanyahu avrebbe potuto evitare questo scontro, non può volere la soluzione dei due stati e l’allargamento degli insediamenti allo stesso tempo.

 

Il premier israeliano ieri ha detto che Israele “non mostrerà l’altra guancia” e ha convocato nel giorno di Natale gli ambasciatori di dieci dei paesi che hanno votato per la risoluzione, compreso l’ambasciatore americano Daniel Shapiro. Netanyahu ha predisposto delle misure contro quelle agenzie dell’Onu che continuano a mostrare ostilità nei confronti di Israele, e lavora per una risoluzione che fissi alcune regole per i dipendenti dell’Onu rendendoli responsabili per ogni dichiarazione che eccede il loro mandato, che incitino alla violenza o siano antisemite. La reazione di Israele non è dettata tanto dalla natura della risoluzione 2334, che non è vincolante, quanto dalle ripercussioni legali e dalla possibilità che questa svolta americana consolidi una strategia anti Israele già in atto in Europa.

 

Poi c’è Obama. La discordia tra il presidente e Netanyahu, è leggendaria, abbiamo sentito diplomatici di lungo corso usare espressioni terribili per definire il rapporto tra i due leader; sappiamo che da tempo Washington fa pressioni su Israele per gli insediamenti. Ma un’astensione all’Onu è più di una ratifica di un rapporto deturpato, è anche più, come scrive il Wall Street Journal, di un’espressione “della petulanza di Obama”: è la dimostrazione di un’enorme “animosità”. Che trova riscontri da molte parti, in Israele e in Europa, dove si celebra – vedi il resoconto del Monde – la “fine del l’impunità diplomatica” di Israele, e del detestato premier Netanyahu.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi