Il giorno dopo l'attentato al mercatino di Charlottenburg (foto LaPresse)

Le stragi dello Stato islamico non sono legate alle sue sconfitte e nemmeno alle nostre scelte militari

Daniele Raineri

Quel software sempre uguale che gira nella testa di capi e stragisti dell'Isis

Roma. C’è un equivoco che ricorre spesso nei titoli dei giornali e nelle analisi del giorno dopo gli attentati dello Stato islamico in Europa – come quello a Berlino rivendicato ieri – ed è legare quelle stragi a qualche fatto che sta succedendo. Si leggono spiegazioni come: “Lo fanno per rappresaglia, perché ora sono sotto pressione dal punto di vista militare”; “Lo fanno perché ora colpiscono i soft target, i bersagli più vulnerabili”; “Lo fanno perché stanno perdendo a Mosul e a Raqqa”. In realtà lo Stato islamico obbedisce a un impianto ideologico molto chiaro e semplice che impone di punire chiunque non si adegui al loro progetto. Non contano le circostanze, non conta lo svolgersi storico delle vicende umane. Loro si muovono all’interno di un disegno trascendente che non prende in considerazione  compromessi o deterrenza (tipo: se voi ci attaccate, allora noi vi manderemo stragisti). Questo vuol dire che se – per ipotesi – nessuno facesse la guerra allo Stato islamico nei territori che controlla in Iraq e in Siria, i leader del gruppo estremista chiederebbero lo stesso questi attacchi in occidente. Il fatto che poi alcuni governi occidentali abbiano lanciato una campagna aerea per colpire le basi dei mujaheddin è soltanto un argomento rafforzativo, ma tutto sommato marginale, nella visione delle cose dello Stato islamico. Ci sono prove fattuali che dimostrano come la pensano i suoi leader irriducibili: per esempio, i primi piani arrivati alla fase avanzata per compiere attentati in Europa risalgono al 2013 (un sequestro di materiale esplosivo in Francia, a Nizza) quando il gruppo di Abu Bakr al Baghdadi godeva di un periodo di relativa impunità in Iraq e in Siria e non avrebbe dovuto preoccuparsi dei governi occidentali perché ancora non era considerato una minaccia. Non c’era motivo di reagire e di compiere rappresaglie, ma già organizzavano le stragi.

  

  

Quando lo Stato islamico ha minacciato i paesi europei ha detto in modo esplicito che l’obiettivo della sua campagna militare era “raggiungere Roma”, “spezzare le croci” e “rendere schiave” le donne occidentali. Soltanto in seguito e in alcuni video di propaganda il gruppo ha sottolineato il ruolo dell’Italia a difesa del governo libico di Fayez al Serraj che ha attaccato la città di Sirte, in mano allo Stato islamico fino all’inizio di dicembre, come motivo di una possibile vendetta. Ma la conquista di Roma è slegata dalla politica del governo italiano: è già un punto del programma stabilito dalle profezie, e se il governo italiano – per assurdo – fosse in guerra contro il governo di Tripoli non cambierebbe nulla. Che è la ragione per cui il gruppo attacca sia l’Iran sia gli Stati Uniti, a dispetto della forte tensione fra i due. Le contingenze non importano, conta soltanto l’espansione dello Stato islamico, come si capisce da due motti che non potrebbero essere più chiari: “Lo Stato islamico non ha confini, soltanto fronti” e “Al Dawla al islamiyya? Baqiya wa tatamaddad!”, “Lo Stato islamico? Resterà e si espanderà!”.

  

Certo, il gruppo poi gestisce questa sua visione di guerra universale secondo alcuni tatticismi: per esempio l’anno scorso non rivendicava i grandi attacchi in Turchia, per seminare confusione e aizzare le violenze tra governo e minoranza curda; inoltre, colpisce molto in Francia e in Belgio piuttosto che in altre nazioni, ma questo perché è più semplice dal punto di vista logistico grazie al numero di adepti francesi e belgi che sono andati e tornati dal medio oriente.

 

Lo Stato islamico è stato creato nell’ottobre 2006 e aveva già le stesse direttive che oggi lo spingono a organizzare attentati in Europa, come un software che si ripete sempre uguale. Se per anni non ha attaccato qui è soltanto perché era assorbito dalla guerra locale in Iraq, perché ha passato anni di crisi e perché soltanto a partire dal 2012 è tornato potente come prima, anzi di più grazie alla circolazione di volontari negli aeroporti e di propaganda in alta definizione su internet. Il gruppo islamista attacca, è nella sua natura, e più è ampio più allarga il suo raggio di tiro – a volte ispirando a distanza. Questo vuol dire che i governi non avrebbero dovuto concedere quel lungo periodo di tranquillità finito con i primi raid aerei americani nell’agosto 2014, ma intervenire quando ancora era l’ora zero. E invece.

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  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)