Donald Trump (foto LaPresse)

Trump e la Fed

Le convergenze con Yellen fanno di Donald un improbabile eroe della libertà delle banche centrali

New York. Per il momento Donald Trump non ha fatto tweet minacciosi contro Janet Yellen dopo la decisione di innalzare i tassi d’interesse. E’ una notizia, viste le precedenti sventagliate del presidente eletto contro il capo della Fed, alla quale aveva promesso di mostrare l’uscita una volta arrivato alla Casa Bianca. Nella bulimia comunicativa di Trump, l’assenza di un tweet è più significativa della sua presenza. Paul Donovan, economista di Ubs Wealth Management, dice che “è improbabile che segnali un endorsement per Yellen, visto che ha detto che non c’è bisogno di uno stimolo fiscale per sostenere l’occupazione”, ma può essere il segno di una convergenza fra i due, almeno nel breve e medio termine. Spesso gli scontri fra il presidente e la Banca centrale derivano da un diverso ordine delle priorità. La Casa Bianca ha come primo obiettivo la riduzione della disoccupazione, la Fed il contenimento dell’inflazione, dato che però è stabilmente al di sotto della soglia del 2 per cento. Significa che i piani di Trump e Yellen hanno uno spazio di intersezione, e che la Fed ha apprezzato – nonostante i segnali ambigui – la combinazione di stimoli fiscali e investimenti sulle infrastrutture che il presidente eletto propone per sostenere la crescita.

 

 

Dopo aver esagerato il ritmo della crescita negli anni di Obama, la Fed oggi offre stime anemiche per gli anni a venire: 2,1 per cento nel 2017, 1,9 per cento nel 2018, 1,9 per cento nel 2019. Ma il passo verso la normalizzazione dei tassi a lungo atteso e infine intrapreso in modo più aggressivo del previsto, unito al linguaggio aperturista verso gli effetti della politica economica annunciata da Trump, è un segnale più forte delle reticenze tattiche. Lee Ferridge, economista di State Street Global Markets, spiega che il piano fiscale ha spinto la decisione della Fed: “Sembra che alla luce del piano di stimolo fiscale previsto da Trump e dei segnali di crescenti pressioni sui prezzi e delle aspettative di inflazione, la Fed abbia sentito la necessità di adottare un piano di rialzo dei tassi più aggressivo”. Queste condizioni mettono Trump nella posizione di non interferire con il lavoro della Fed, e anzi di sottolineare quell’indipendenza della Banca centrale dal potere politico che Yellen nella conferenza stampa dopo l’incontro del Federal Market Open Committee ha con forza riaffermato.

 

“Intendo finire il mio mandato di quattro anni”, ha detto, rispondendo indirettamente alle promesse del presidente eletto in campagna elettorale di una cacciata anzitempo: “Credo fortemente nell’indipendenza della Fed”. Ora a Trump conviene siglare una pace armata con la Fed, posizione che, per paradosso, gli consente di diventare una figura quasi atipica in uno scenario globale dove, dall’India alla Scozia, i governi tendono a stringere il cappio intorno al collo dei banchieri centrali. Un dato politico rilevante per un presidente eletto accusato di calpestare in modo autoritario tutte le istituzioni. Rimane da affrontare il dilemma del dollaro forte, che ha raggiunto il suo valore massimo in 14 anni sull’onda dell’aggressività della Fed. Se le politiche che Trump promuove tendono a rafforzare il dollaro, in realtà la sua Amministrazione avrebbe bisogno di un indebolimento della valuta per aumentare la competitività delle aziende americane che il presidente intende rilanciare. 

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