Nadia Murad e Lamiya Aji Bashar, vincitrici Premio Sacharov per la libertà di pensiero 2016 (foto LaPresse)

Chi ha inventato il premio Sakharov, vinto ieri dalle due yazide

Giulio Meotti

Jas Gawronski: “Così lo fondammo con Otto d’Asburgo”. Il premio resiste. Alla compiacenza, ai buoni sentimenti, alla retorica facile

Roma. Yasser Arafat, Jimmy Carter, Rigoberta Menchù… Il Nobel per la Pace ci ha messo del suo per perdere ogni credibilità. E’ diventato un premio “phony”, fasullo. Alla meglio un omaggio alle buone intenzioni, di cui però è notoriamente lastricata la strada dell’inferno. I premi dell’Onu portano ormai i nomi dei tiranni equatoriali, come il premio Obiang. Il “premio Nobel alternativo”, il Right Livelihood Award svedese, è invece appannaggio dei delatori (Mordechai Vanunu, Amy Goodman, Edward Snowden). Il buon Premio Nobel per la Pace non viene comminato a Oslo, ma a Bruxelles, e non da una accademia di saggi, ma dal Parlamento Europeo. E’ il Premio Sakharov, che prende il nome dal celebre fisico e dissidente, che con la sua insistenza sui diritti umani e la libertà di coscienza aiutò non poco a far crollare quel gigante sovietico dai piedi d’argilla.

Lunedì due donne yazide, esponenti della comunità mediorientale che lo Stato islamico ha cercato di spazzare con le fosse comuni, le decapitazioni e la schiavitù sessuale, sono andate a ritirare il Premio Sakharov. Si tratta di Nadia Murad e Lamiya Aji Bashar, sopravvissute alla schiavitù sessuale dell’Isis, le quali hanno avuto la meglio su un altro candidato di prestigio, il giornalista turco Can Dündar, sopravvissuto a un attentato e ora in esilio in Germania. “Dobbiamo modificare gli insegnamenti dell’islam”, ha detto Nadia Murad. Il premio Sakharov resiste. Alla compiacenza, ai buoni sentimenti, alla retorica facile.

 

 

C’è chi pensava di intitolarlo a Sofocle, chi a Erasmo, chi a Montaigne. Si preferì Sakharov. Negli anni, il premio sarebbe andato alla scrittrice bengalese Taslima Nasreen, il cui romanzo “La Vergogna” è stato bruciato. Al regista iraniano Jafar Panahi, “colpevole” di essere stato al fianco di Neda Soltan alle manifestazioni contro gli ayatollah. Alla dissidenza cubana con Oswaldo Payá, cattolico, che chiedeva libertà di espressione e di impresa, la fine del castrismo. A Salima Ghezali, scrittrice algerina, musulmana, che gli islamisti hanno condannato a morte in contumacia. E al blogger saudita Raif Badawi, frustato per aver “offeso l’islam”.

   

Ne parliamo con Jas Gawronski, che da ex parlamentare europeo fece parte del gruppo di fondatori del Premio Sakharov. “Scegliemmo il nome Sakharov per denunciare la persecuzione comunista. Con me c’erano il francese Jean-François Deniau, Enzo Bettiza e Otto d’Asburgo, figlio dell’ultimo imperatore Carlo e della moglie Zita, il quale ebbe un ruolo decisivo”. Otto, ossuto, calvo, con i baffetti e alle spalle un esercito di fantasmi illustri, sognava un’Europa cristiana dall’Islanda all’Ucraina passando per l’Albania. Fu Otto d’Asburgo a scegliere il nome del premio, “Sakharov era un simbolo di coraggio ma anche un ebreo”, disse l’erede al trono d’Austria. “Il premio è nato durante la repressione polacca, quando la mancanza di libertà venne identificata nei regimi comunisti”, prosegue Gawronski con il Foglio. “Poi è diventato un fiore all’occhiello. Al Parlamento europeo ci fu una gara ad accaparrarselo, ma il processo di selezione fu pulito. Il tema delle libertà e dei diritti dell’uomo è stato sempre presente al Parlamento, con il Ppe e i socialisti che gareggiavano sulla difesa dei diritti”. A Oslo, intanto, si iniziava a lisciare il pelo.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.