Due poliziotti davanti allo stadio di Istanbul dopo l'esplosione di ieri sera (foto LaPresse)

Un gruppo combattente curdo rivendica l'attentato allo stadio di Istanbul

Luca Gambardella

Un’autobomba e un kamikaze saltano in aria al termine della partita del Besiktas. 38 le vittime, 30 sono agenti della polizia. Qualche ora dopo il comunicato dei Falchi della libertà del Kurdistan: "Continueremo fino alla liberazione di Öcalan"

Roma. Ieri sera due esplosioni hanno causato la morte di 38 persone e il ferimento di molte altre fuori dallo stadio del Besiktas, a Istanbul. Un’autobomba ha colpito un mezzo della polizia e ha ucciso almeno 30 agenti mentre un attentatore suicida si è fatto saltare in aria poco dopo, proprio mentre i tifosi uscivano dalla struttura, un paio di ore dopo il termine della partita contro il Bursaspor. L’attacco arriva nel giorno in cui il partito del presidente turco Recep Tayyip Erdogan (Akp) ha presentato in Parlamento un pacchetto di emendamenti per trasformare la Turchia in una repubblica presidenziale.

 

L’attentato ha preso di mira soprattutto la polizia, il che aveva subito indotto le autorità turche a sospettare degli indipendentisti curdi. Il vice primo ministro, Numan Kurtulmus, aveva dichiarato che i primi indizi conducevano al Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan dichiarato fuori legge, ma aveva precisato che a solo poche ore dall’evento “non è ancora possibile arrivare a conclusioni certe”. Ma poche ore dopo è arrivato il comunicato che rivendicava l'attentato da parte del gruppo terroristico chiamato Tak, che sta per “Falchi della libertà del Kurdistan” (Teyrenbazen Azadiya Kurdistan) ed è considerato un affiliato del Pkk. In realtà i falchi si sono separati dal partito dei lavoratori, accusato di usare metodi troppo morbidi nella guerra contro Ankara. La nota diffusa su internet accusa il governo dell'Akp di adottare una politica "fascista" e di "massacrare" il popolo del Kurdistan. Il messaggio fa riferimento al guerrigliero rivoluzionario curdo Abdullah Öcalan (Apo) detenuto in carcere e dice che gli attentati continueranno finché resterà recluso: "Ogni goccia del nostro sangue versata sarà giustificazione di nuove azioni del Tak".

 

 

Nell’ultimo anno la Turchia è stata bersaglio di molti attacchi terroristici, sia dei curdi sia dello Stato islamico. Proprio una settimana fa il Califfato aveva esortato i suoi combattenti a colpire “il sistema militare, quello della sicurezza, dell’economia e dei media in Turchia”. Ma mentre il governo aveva accusato da subito il Pkk, alcuni giornali locali come Diken, uno dei pochi organi di stampa rimasto indipendente dopo le epurazioni di Erdogan, avevano anticipato che i sospetti conducevano piuttosto al Tak.   

  

Subito dopo l'attacco,  Erdogan ha annullato il suo viaggio in Kazakistan e in un comunicato ha condannato l’attacco, “diretto chiaramente contro i civili e contro la polizia” e che “con l’aiuto di Dio, il nostro paese sconfiggerà il terrore, le organizzazioni terroristiche e le forze che sono dietro di loro”, facendo un nuovo riferimento a presunti piani e complotti più ampi che intendono destabilizzare il paese (il mese scorso aveva ripetuto che “l’occidente sostiene l’Isis”). Poche ore prima dell’attentato a Istanbul, l’Akp aveva presentato in Parlamento i 21 articoli di una riforma che trasformerebbe il paese in una repubblica presidenziale in cui il capo dello stato, con un deciso allargamento dei propri poteri, avrebbe l’autorità di nominare ministri, vicepresidenti, funzionari pubblici di alto livello, abolendo la figura del premier. La riforma ha avuto un’accelerata decisa dopo il colpo di stato di giugno ma, per l’opposizione, quella di Erdogan sarebbe un’ulteriore svolta autoritaria che gli garantirebbe di restare al potere indisturbato almeno fino al 2029 con un governo “dell’uomo solo al comando”. 

  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.